Un autorevole quotidiano (se non “il” quotidiano autorevole per antonomasia) la mette così: «Attenzione: le immagini che seguono non sono adatte a un pubblico particolarmente impressionabile». Altri, magari meno autorevoli - ma non necessariamente - parlano invece di «immagini che possono urtare (o turbare) persone particolarmente sensibili». C’è poi chi si premura di avvisare che la ragione degli avvisi di cui sopra sta nel «contenuto violento» o «esplicito» delle immagini in questione.
Avvertenze del genere, un tempo relativamente rare, sono oggi molto comuni: una ricognizione di pochi minuti sul web, ieri, mi ha permesso di contarne almeno una decina. Il fenomeno si spiega facilmente: ognuno di noi gira con una macchina da presa in tasca (il telefonino) ed è pertanto assai probabile che dove accade qualcosa di brutto ci sia qualcuno pronto a filmarlo. La tecnologia video è disponibile ovunque: da Dacca a Bruxelles, da Falluja a Dallas. Con tanti obiettivi per le strade - e, purtroppo, con tanto orrore a disposizione - è evidente che l’offerta di immagini cruente sia ampia. Più difficile, ma interessante, cercare di capire i meccanismi della domanda.
Davanti all’avviso, pur doveroso, che siamo nell’imminenza di immagini “impressionanti”, come reagisce la nostra mente? Qualcuno davvero se ne va e recita il classico “passo e chiudo”, oppure nei più prevale la reazione opposta, quella di una curiosità acuita dalla tensione, di timore sopraffatto dal desiderio di vedere, di spingere oltre la percezione del mondo?
C’è chi ha campato a lungo su questa tremebonda e irresistibile attrazione per l’orribile: i film, horror, appunto, ai quali venivano associate abili campagne di pubblicità che, mascherate da avvisi per preparare il pubblico al pauroso e al repellente, finivano per spingerlo in sala. Oggi il cartello varrebbe la pena di esporlo alla nascita: «Benvenuto al mondo. Ciò che vedrai da qui in avanti di sicuro turberà la tua sensibilità».
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