La notizia è di ieri: due ragazzine beccate a scribacchiare sul Duomo quello che, secondo gli interpreti dell’opera, sarebbe un insulto rivolto a chicchessia, forse una compagna di scuola. Il graffito delle giovanissime ha aperto la strada ad altre iscrizioni non meno smodate, anche se affidate a supporti più adatti: quelle dei commentatori da modem.
Come sempre in questi casi, l’occhio di chi condanna si eleva sulle ragazzine per posarsi, severo, sui genitori: «Ma chi le avrà educate, queste due?», «Fossi io la loro mamma, sai che sberle».
C’è del vero e perfino del sacrosanto - botte a parte - in queste esternazioni, ma alla fine mi sembra lascino il tempo che trovano. Mi incuriosisce di più provare a immaginare che cosa può essere passato per la testa delle due mentre avvicinavano il pennarello all’augusto marmo della cattedrale. Non vale, tra l’altro, rifugiarsi nel concetto che le due sono pressoché adolescenti, stagione della vita che gode, o quasi, di licenza di stupidità: analogo oscuramento della ragione tocca, di tanto in tanto, maturi tifosi in trasferta, turisti in sandalo e maglietta, insospettabili signori con la segreta passione per il vandalismo.
Esenti da questa maligna ramificazione della grafomania, per paradosso, sono i writer, i quali “minacciano” qualunque superficie tranne quelle dei monumenti: essi desiderano lasciare “qualcosa”, per quanto discutibile possa essere, dove non c’è “niente”, non dove già c’è tutto. Chi pasticcia su un monumento, invece, vuole dell’altro: non desidera comunicare ma dare un segno di sé su una presenza che, si suppone, sfiderà i secoli, così da sopravvivere con essa. Da questo si può misurare quanta poca autostima ci sia in chi si abbandona a un gesto così irresponsabile, quanta poca fiducia abbia nella possibilità di lasciare una traccia che non sia uno sgorbio sventato.
Magari, oltre a sgridarle, sarà il caso di aiutare quelle due a trovare un posto nel mondo. Così che possano vivere senza sporcare e senza sporcarsi.
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