Diciamolo con franchezza: scaricare una app sul telefonino è diventato un piccolo piacere artificiale. Ci crogioliamo nell’anticipazione: questa app risolverà i nostri problemi, se non tutti, almeno quelli più importanti. Come minimo, ci possiamo attendere che la nostra esistenza diventerà di colpo più lieve e organizzata, più dinamica e razionale. È l’impressione che sempre danno i gingilli: vuoi mettere il miglioramento della nostra vita, il tempo risparmiato, il ventaglio di possibilità che di dischiude davanti a noi quando non appena disponiamo di un programmino che ci abbina le calze con i pantaloni?
La promessa delle app è troppo buona per non essere irresistibile: pochi secondi per scaricarla, qualche centesimo versato nelle casse dei programmatori, ed ecco che il nostro futuro si dipinge di rosa. Dimentichiamo che le app non aprono ristoranti: si limitano a segnalarli. E neppure creano dal nulla paradisi tropicali a basso costo raggiungibili in dieci minuti con la linea 1 della metropolitana di Milano. Possono prenotarci un albergo, questo sì, informarci sul menu di una trattoria, anche: comodità che scambiamo spesso per conquiste epocali.
A causa di questo equivoco il mondo delle app si va facendo un poco arrogante. Ormai siamo noi a doverci dimostrare all’altezza dei programmi che scarichiamo, e non il contrario. Ieri, una nuovissima app di cui si fa un gran parlare, appena scaricata sul mio apparecchio si è sentita in dovere di informarmi che nessuno dei miei contatti aveva «attività in corso». A questo punto, con insopportabile sussiego e superba condiscendenza, ha aggiunto: «Forse dovresti avere più contatti?»
No, signora app - o signorina, non so - non dovrei affatto avere più contatti. Ciò che dovrei fare è prendere il telefonino e scagliarlo nel più vicino specchio d’acqua perché, con esso, inghiotta anche la nuova schiavitù informatico-sociale. Non lo farò, perché appartengo al mondo nel bene e nel male, nell’acume e nella stupidità. Però lei, almeno, non mi prenda per i fondelli.
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