Discorrevo, qualche giorno fa, con colleghi e amici a me più o meno coetanei e, nel definire i sintomi del comune, incipiente invecchiamento - parliamo di persone intorno ai cinquant’anni - ci trovavamo d’accordo nell’affermare che la perdita di memoria è senza dubbio il più evidente. Il processo, notavamo tutti, aveva preso una piega inquietante ma, naturalmente, nessuno di noi ricordava quando fosse incominciato.
Per fortuna, ora qualcuno corre in nostro soccorso. Non suggerendo nuovi farmaci miracolosi o diete a base di pesce - come faceva Bertie Wooster con Jeeves quando voleva incrementare le già prodigiose facolità mentali del suo valletto -, bensì mostrandoci i risultati di una ricerca. In base a questo studio, l’effetto di perdita della memoria nelle persone anziane o, diciamo, non più giovanissime, sta più che altro in un meccanismo di autosuggestione. In altre parole, l’associazione età-perdita della memoria è così radicata nella nostra cultura da condizionare il cervello di noi tutti anche quando, e accade spesso, non c’è alla base alcuna defaillance fisiologica. Il cervello, dicono gli esperti, è una macchina più robusta di quanto si creda, e la memoria uno strumento molto malleabile, tanto da superare ogni nostra idea preconcetta in proposito.
In base a questo ragionamento, invecchiando ciò che perdiamo non è affatto la memoria. Piuttosto, perdiamo la nostra fiducia in essa. Subentra, in noi “maturi”, uno scoraggiamento psicologico, non fisiologico: ci tratteniamo dal mettere alla prova le nostre facoltà nel timore che esse non rispondano più ai comandi. Eppure, gli esempi di persone che, anche in tarda età, hanno dato prova di genio, brillantezza mentale, energia fisica e intellettuale ed elasticità culturale sono innumerevoli. Direi quasi infiniti. Volentieri vi butterei giù un elenco non fosse che, miseriaccia, non me ne viene in mente neanche una.
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