Un imprenditore che molla tutto - si fa per dire - per candidarsi alla guida del Paese e salvarlo da oscure minacce comuniste o, peggio, “liberal”? Cambia canale, diremmo noi, questo film lo abbiamo già visto. Non in America dove, a parte i tentativi di Ross Perot nel 1992 e nel 1996, nessun businessman nel vero senso della parola si era mai gettato a capofitto nella corsa per la Casa Bianca. Con più di vent’anni di ritardo rispetto a noi - ma, si sa, questi americani sono sempre una palla al piede - ecco che ci prova Donald Trump, candidandosi tra i Repubblicani.
Bisogna ammettere che valeva la pena aspettare: Trump si è avventato sulla politica come un pugile raggiunge il centro del ring. Meglio ancora: come un lottatore di wrestling a inizio spettacolo. Ancor prima di tirare un pugno o azzardare una mossa strangolatrice - e ancora prima di dimostrare di esserne capace - si è fatto notare per proclami roboanti, smargiassate e corse sfrenate nel terreno del politicamente scorretto.
Per far ciò, ha offeso un po’ di gente: i messicani («stupratori e spacciatori») e le donne (« vacche»). Mosse apparentemente azzardate, ma neanche tanto. Con le sue bordate straripanti, Trump ha conquistato gente che, magari, non ce l’ha né con i messicani né con le donne, ma è stufa di sentire un linguaggio - controllato e rifinito - che non comprende e non riesce a parlare. Soprattutto, gente convinta che i problemi possano sempre avere una soluzione semplice che solo frode e malafede impediscono di applicare. Immigrati clandestini arrivano dal Messico? Basta costruire un muro che li contenga dalla loro parte. Le donne “rompono” con la richiesta di diritti e parità salariale? Basta zittirle come facevano i bisnonni.
È sempre un gran sollievo trovare qualcuno che ti dice “Ho io la soluzione: è facile” o “Ci penso io” oppure anche “Non ci vuole un genio per capire che...”. È un sollievo e una liberazione: allontana la verità che, da sempre e con ostinazione terribile, vorrebbe costringerci a crescere.
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