La collega giornalista, persona sensibile e curiosa, ha osservato il numero accanto alla manina con il pollice all’insù - gesto dell’antichità romana riesumato dai social media - aumentare e aumentare fino a raggiungere il livello di guardia del suo stupore. I “like” - quasi quattrocento alla fine - riguardavano una notizia apparsa sul sito de “Il Cittadino”, settimanale di Monza e Brianza: un uomo di 26 anni si butta da un viadotto della superstrada in un bosco di rovi, gli automobilisti danno l’allarme, scattano i soccorsi, il traffico resta a lungo bloccato, l’uomo viene ricoverato con una gamba spezzata.
La collega, giustamente, si chiede: a che cosa si riferiscono i “mi piace”? Alla tempestività con cui “Il Cittadino” ha dato la notizia? All’entusiasmo popolare per i tentativi di suicidio? Alla partecipazione degli automobilisti che, invece di tirare dritto, hanno subito chiamato il 118? All’inevitabile ingorgo, sempre un classico dell’informazione in Rete? Al finale della storia, relativamente lieto?
Non è dato che avventurarsi in congetture perché il “mi piace” non ammette sfumature, neppure quella - che poi tanto sfumatura non è - del suo contrario, l’inesistente “non mi piace”. Da Facebook in poi è soltanto “mi piace” o niente: un codice emotivo che neppure arriva a essere binario. È il prodotto del disegno di offrire a tutti un mezzo per partecipare, ovvero di “dire la nostra” senza però costringerci allo sforzo di spiegare a noi stessi e agli altri i sentimenti che nutriamo. Per secoli - millenni - la letteratura si è sforzata di analizzare ogni sfumatura dell’animo umano (pensate soltanto ai risultati ottenuti da gente come Tolstoj, Austen, Proust, Goethe): oggi siamo all’acceso/spento, anzi all’acceso o niente del tutto.
Dunque, non sappiamo che cosa prova la gente, sappiamo soltanto se tanti o pochi provano “qualcosa”. Poco importa cosa: per fare “contatti” non c’è bisogno di persone, solo di numeri.
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