Direi che non c'è cosa migliore, per tirarci su il morale, che parlare di tristezza. Vi sembrerà strano, al momento, e forse anche sconfortante ma, se ci pensate, il segreto di questa apparentemente bislacca affermazione sta nel verbo “parlare” e non nel sostantivo “tristezza”.
Tutti noi sappiamo quanto parlare di una cosa sgradevole possa aiutare, in determinate circostanze, a ridimensionarla se non addirittura a esorcizzarla. La tristezza tuttavia porta con sé altri interrogativi che, qui, cercherò di analizzare. Lo farò citando i risultati di uno studio condotto a partire da una domanda tutt'altro che sciocca: perché, quando siamo tristi, spesso finiamo per ascoltare musica triste? Non sarebbe più logico cercare di migliorare il nostro umore ascoltando una delle infinite playlist che, in Rete, promettono di rimetterci lo spirito in carreggiata?
L'esperienza insegna che non è così: esperienze dolorose si accompagnano spessissimo al desiderio di ascoltare note malinconiche, quando non addirittura tragiche. E' uno dei tanti misteri dell'umanità, come il gioco del cricket e la sartoria di Giannino. Questa potente spinta a rivestire il nostro dolore di note piangenti è nota da secoli, ha ispirato superbe melodie e oggi, in tempi gravemente pragmatici, si risolve in offerte come quella presente su iTunes: una raccolta di brani “da lutto” in vendita a 5 dollari e 99. Dicevo dei risultati di uno studio condotto in materia. Gli intervistati hanno descritto la scelta di musica triste in momenti tristi come “desiderio di connessione”, come risposta a un “valore estetico”, come “innesco della memoria”.
Fossi stato tra gli interpellati, non so come avrei risposto. Forse avrei detto che, nei momenti tristi, si pensa alla musica come a un messaggero il quale, facendoci capire nel tono di condividere la nostra afflizione, lentamente, con grazia severa, soffia sul fuoco della speranza. Ci sono dolori, purtroppo, che non hanno speranza. Per quelli, fateci caso, non c'è neppure musica.
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