Specie fallita

La strage di Parigi, nel suo orrore, ha avuto l’effetto di un fulmine: per una frazione di secondo ha squarciato le tenebre e ci ha permesso di vedere con inaudita chiarezza ciò che dovrebbe unirci. Il fenomeno, come detto, è durato un battito di ciglia. Il buio è subito tornato tra noi e noi abbiamo ricominciato subito a dividerci. Qualcuno si è messo a sciacallare, a scavare con la lingua tra le rovine in cerca del proprio interesse, ovvero del proprio guadagno. Altri si sono sentiti in vena di precisazioni, svolazzi d’intelligenza, distinguo risentiti, paradossi non richiesti, esibizioni di arguzia e di lacrimoso sgomento e altri ancora, naturalmente, hanno portato in corteo, reggendolo su spalle possenti, il Gran baldacchino del Complotto.

Questo la dice lunga sullo stato delle coscienze individuali ma, in fondo, andrebbe interpretato nel modo più costruttivo possibile. Nulla infatti stabilisce che dobbiamo essere uniti, niente ci fa amici per forza o fratelli per legge. Il massimo a cui possiamo aspirare è vivere da vicini in armistizio: ci stiamo reciprocamente sulle scatole, consideriamo sempre la nostra intelligenza prevalente su quella altrui, ma, almeno, tra noi c’è una sorta di decenza, fragile come la superficie di una bolla di sapone, che ostacola, se non impedisce, il ricorso alla violenza.

Mi sembra evidente, ormai, che la gente dà il meglio di sé nei piccoli gesti, negli impegni ostinati e sfibranti, nel senso del dovere più umile e nell’accettazione rassegnata delle responsabilità più sgradevoli e dei sacrifici più modesti e tenaci.

Forse invecchio male - sarà questo il motivo - ma trovo che l’umanità si salvi quando si mantiene bene al di sotto delle sue ambizioni, ovvero quando, con uno sbuffo e un sorriso, ammette la sua cosmica impotenza e si accontenta di mordere un panino, ridere di una barzelletta, baciare una guancia. In tutto il resto - e cito il Woody Allen di “Basta che funzioni” - «la nostra è una specie fallita».

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