Davvero non vorrei offendere nessuno e men che meno distinguermi dal consesso civile millantando saldezze morali che proprio non mi appartengono ma, nel valutare le reazioni online alla tragedia di Genova, arrivo a una sintesi abbastanza netta: abbiamo dato la precisa impressione di un Paese in cui i ponti non possono che cadere sulla testa della gente.
Come potrebbero star su se la pasta intellettuale di cui siamo fatti oscilla paurosamente tra il vittimismo e la ribalderia, tra l’individualismo più cinico e un’inclinazione imperdonabile alla melassa dei sentimenti? Melassa che fin da subito ha investito l’azione dei soccorritori, oggetto di una retorica molliccia, scontata, patriottarda, da lacrimoni in tasca. Un curioso miscuglio di ringraziamenti, cuoricini, proclami virili, bacetti e sbandieramenti declinato a seconda del mittente: un po’ Liala e un po’ colonnello in pensione . Nessun dubbio sulle buone intenzioni, per carità: eppure la dice lunga, tanta retorica vischiosa, sul tono del muscolo morale nazionale.
Eccezioni ce ne sono, ci mancherebbe, e anche tante, ma qui conta la conformazione complessiva del tessuto sociale, ovvero la capacità di attingere a un bagaglio di certezze culturali, valori civili e dignità personale in grado di rassicurarci: siamo caduti in basso ma sapremo reagire.
Spiace dirlo, non è così. L’idea che si ricava dal gran pastone è quella di una pietosa gara a superarsi in intensità della reazione: io mi commuovo, e io di più; io mi indigno, e io di più; io piango, piango e piango, e io annego nelle lacrime; io voglio la testa dei politici e io anche quella dei loro parenti; io mantengo un dignitoso silenzio e io un silenzio più dignitoso del tuo.
Accennerei soltanto, per non farci troppo male, al “dibattito” sulle responsabilità amministrative e politiche, alimentato da “investigatori” e commentatori che seguono il tracciato dei fatti solo se e fino a quando li conduce nel territorio dell’avversario. Nessuna, o poca, lucidità, nessun gesto in direzione dell’oggettività, nessuna ammissione di colpa.
In Giappone, appena pochi giorni fa, i vertici di un’università hanno fatto atto di contrizione, inchinandosi davanti alle telecamere, per aver falsificato, nell’arco di decenni, le valutazioni dei candidati all’esame di ammissione alla Facoltà di medicina in modo da ridimensionare scientificamente la percentuale degli studenti di sesso femminile. Come si vede, gente capace di bassezze ce n’è dovunque. La differenza – ovvero l’affiorare di un comune senso di responsabilità e di rispetto – si vede quando i pasticci vengono alla luce.
Il Giappone, sia detto a margine, è un Paese che conosce incertezze idrogeologiche anche più gravi delle nostre. Da quelle parti però i viadotti non cadono nelle giornate di pioggia. Magari si inclinano se investiti da terremoti di indicibile potenza, questo sì, eventi che mettono a nudo anche scelte rischiose in fatto di autonomia energetica, ma si sa che la lotta dell’uomo contro le forze della Natura è impari. Da noi, invece, l’uomo, prima ancora che con la Natura, se la vede con un avversario meno formidabile - la stupidità -, eppure è stupido abbastanza da uscirne a pezzi. Tanto c’è sempre qualcuno che viene a consolarlo: non ci arrediamo, gli dice, non ci siamo mai arresi. Ma piantatela: ci siamo arresi eccome.
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