Ieri, nel corso di una cerimonia che, un tempo, ogni cronista ansioso di compiacere avrebbe definito «sobria e significativa», il ministro dell’Interno Alfano ha inaugurato, in provincia di Catania, un asilo intitolato ad Aylan Kurdi.
C’è da sperare che la nostra memoria collettiva non sia così labile da aver perso, in meno di sei mesi, conoscenza di chi fosse Aylan Kurdi. Giusto per stabilire le coordinate, diremo che si tratta di quel bambino siriano di tre anni morto annegato sulla costa turca di Bodrum. Il suo corpicino riverso sulla spiaggia fu ripreso da un fotografo e l’immagine divenne simbolo urlante del dramma dei profughi, o migranti, o qualunque altra definizione vi sembri, per costoro, appropriata.
Non possiamo affermare che quella tragica fotografia portò le menti e i cuori occidentali su una posizione condivisa - chi era favorevole all’accoglienza rimase tale con ritrovato slancio, chi si diceva sfavorevole radunò a sua volta ragioni per saldare le sue convinzioni - ma è certo che costrinse tutti a confrontarsi con la drammatica questione.
Come sempre accade quando un particolare diventa simbolo del tutto, la penetrazione del messaggio, efficacissima, avvenne a discapito del generarsi di circostanze paradossali: insieme ad Aylan, su quella costa, morirono anche il fratello di 5 anni, Galip, e la madre, Rehan, ma oggi nessuno si ricorda di loro e certamente nessun asilo verrà dedicato alla loro memoria, né a Catania né altrove.
Un paradosso sopportabile, se il risultato sarà la conservazione della memoria. Così come Anna Frank rappresenta tutto l’Olocausto, c’è il caso che, da oggi in avanti, il povero Aylan incarni il dramma di chiunque si ritrovi profugo. A turbarci, piuttosto, è il fatto che i muri sono ormai pieni di nomi che dovrebbero ammonirci a non ripetere gli stessi errori e ogni edificio pubblico, al netto di qualche eccezione, svetta su di noi rilanciando nell’intitolazione l’eco di una sventura da non dimenticare. Tante voci - troppe? - parlano alla nostra umana capacità di ricordare e di correggerci.
© RIPRODUZIONE RISERVATA