Resto in fiduciosa attesa che qualcuno, prima o poi, nel commentare la devastazione combinata in un cimitero di Roma da quattro minorenni «di buona famiglia» faccia ricorso alla parola «noia».
È spesso richiamando questo stato emotivo che si spiegano - senza giustificarle - certe imprese ripugnanti alla morale. Come se la noia potesse esercitare su qualcuno un’azione irresistibile, tale da condurlo fuori da ogni restrizione. Uno stato insopportabile al punto che, per scrollarselo di dosso, c’è chi mette da parte ragione, dignità, rispetto e - last but not least - buon gusto.
Questa condizione sembrerebbe colpire soprattutto i giovani i quali, come si dice, «oggi hanno tutto» e non sono costretti a confrontarsi con quelle necessità stringenti che, la Storia sta a provarlo, funzionano da perfetto antidoto alla noia.
In letteratura, la noia è associata soprattutto alla vita in provincia ed è per colpa sua se madame Bovary diventa un’adultera e se il Roquentin di Sartre, scoprendola tutta intorno a sé durante il soggiorno a Bouville, arriva suo malgrado a scorgere il nucleo nauseante dell’Esistenza.
Ma è questa una noia adulta, intellettuale e, per molti versi, incurabile, a meno di non pretendere di curare il mondo stesso della sua congenita assurdità. Quella dei minorenni romani, e degli altri ragazzi che si fanno atterrire al punto da diventare piccoli mostri, è una noia stagionale, transitoria.
Il rimedio più efficace sta nel raggiungere la consapevolezza che, al contrario di ciò che si crede da ragazzi, il tempo non è infinito. Al contrario, esso è limitatissimo: con un luogo comune, lo si definisce addirittura «prezioso». Purtroppo, occorre crescere almeno un po’ per accorgersi di quanto siano strepitosamente veri certi luoghi comuni. Questo è uno di quelli. Al punto che quanti riposano nel cimitero di Roma, se appena potessero, non odierebbero i giovani vandali per aver devastato le tombe, ma per aver sprecato del tempo.
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