Julio Iglesias ha da poco compiuto settanta anni e, leggiamo, si lamenta con la stampa spagnola perché da tempo lo ignora. “Non è possibile che i media non sappiano quello che mi succede quando giro per il mondo” ha dichiarato, “io sono il più importante artista latino”.
I più giovani non annoverano tra i loro traumi l’incontro con Julio Iglesias: sarà meglio metterli al corrente a costo di qualche danneggiamento neurologico. Spagnolo, bell’uomo, ex portiere professionale di calcio, Julio Iglesias ha rappresentato, soprattutto negli anni Ottanta, la voce principale di un genere melodico parecchio untuoso, molto in giacca blu e mai timido in fatto di brillantina. Iglesias – al quale va riconosciuto di aver sfoggiato una carnagione color mogano anche prima di quel tale che in tv decantava i mobili Aiazzone – ha effettivamente venduto milioni di dischi (trecento, dicono le cifre ufficiali), spezzato altrettanti milioni di cuori e, all’epoca, riempito con le sue imprese canore-amatorie pagine e pagine di giornale. Da anni però ce ne eravamo liberati. La stampa spagnola e, a cascata, quella internazionale, lo aveva consegnato all’oblio. Questo, senza intaccare nessuna libertà individuale: chi avesse voluto riascoltare brani fondamentali come “Se mi lasci non vale”, “Sono un pirata, sono un signore” e “Manuela” poteva benissimo farlo nella privacy della sua abitazione, previo avviso alle autorità di Pubblica sicurezza. Gli altri - ovvero la popolazione mondiale non psicotica - poteva invece continuare nella sua pacifica esistenza.
Ma Julio non si arrende: rivuole la sua fama come chiunque ne abbia assaggiato almeno una volta il frutto dolcissimo e come chiunque abbia in magazzino, per la cura dell’epidermide, migliaia e migliaia di flaconi di Pronto Mobili. Da uomo, lo capisco; da appassionato di musica, no. Per questa ragione ho un messaggio da consegnare ai colleghi della stampa spagnola: tenete duro, ragazzi.
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