Provo, per le elezioni, un sentimento di odio-amore. La democrazia diretta non c’entra nulla e neppure la volontà popolare. È soltanto una questione scolastica. Amo le elezioni perché mi consentono, per un giorno, di tornare a scuola; le odio perché il ritorno, come quasi tutte le operazioni nostalgiche, è deludente e incompleto.
Innanzitutto, è un ritorno troppo breve. Il tempo di entrare, svolgere le operazioni necessarie a esprimere il voto ed ecco che si è già sulla via del ritorno. Per ritrovare quella che negli anni Sessanta si sarebbe chiamata la “vibrazione” della scuola, avrei bisogno di almeno un paio d’ore, ma io due ore non ce le ho. Dovrei tornare a scuola in altri momenti, ma non avete idea di quali noie si possano avere gironzolando intorno a una scuola se non siete genitore di almeno uno degli alunni. Soprattutto, evitate di farlo indossando trench e occhiali da sole. Dunque, dovrò sfruttare quei pochi minuti per ritrovare atmosfere lontane ma mai del tutto dimenticate.
È curioso confrontare la realtà con i propri ricordi: la sovrapposizione non è mai perfetta e sono appunto le discrepanze, i margini che non collimano, a suscitare le emozioni più forti. L’odore dei corridoi e delle aule, per esempio, mi sorprende sempre come nuovo. Non “nuovo” nel senso letterale della parola: mi coglie, se possibile, come un ricordo nuovo, ovvero rinnovato, rinfrescato nella memoria. Stessa cosa accade per i suoni e per la luce: i passi nei corridoi vuoti, il sole e le ombre sulla sfilata delle porte.
Una volta entrato in aula, ci rinuncio: c’è troppo da fare. Porgere la carta d’identità, accogliere matita e schede, dirigersi verso la cabina libera e non un’altra già occupata (se sorpreso nell’intimità del voto, l’elettore reagisce con un pudore quasi vittoriano), votare, tornare alla base e ricordarsi di recuperare il documento. Tutte operazioni che gridano maggiore età, responsabilità, controllo e dovere. Ovvero niente di ciò che, tornando a scuola, abbia desiderio di trovare.
© RIPRODUZIONE RISERVATA