Tutti i pezzi

Ieri, viaggiando su un treno sovraffollato, naso contro ascella con gli altri passeggeri (la ragione della sfavorevole circostanza era dovuta al fatto che, nei giorni di festa, quando la gente esce per godersi una passeggiata in centro o ai laghi, i treni, invece di essere di più, sono di meno, secondo un’organizzazione del lavoro molto apprezzata al congresso del partito socialdemocratico austriaco nel 1899), ieri, dunque, riflettevo su quante probabilità possa avere Enrico Letta di formare un governo che non dico risolva tutti i problemi di questa più o meno dolente umanità, ma almeno cerchi di alleviarli oppure, obiettivo minimo, di non peggiorarli. Manca un riscontro concreto, ma così a occhio le direi infinitesimali.

Pensavo, mentre il gomito di un fratello passeggero mi massaggiava il peritoneo, a quanta distanza c’è tra le consultazioni in corso a Roma, con le delegazioni dei partiti e dei movimenti accomodate sulle poltroncine di broccato a sostenere trattative su questioni squisitamente tattiche ed elettorali, quando non di interesse personale, e queste persone in cerca di un modesto svago: un gelato a tre gusti, la ricarica del telefonino, due cartoline e un pacchetto da dieci.

«Spero di sbagliarmi - pensavo, mentre un amico viaggiatore, riusciva, complice una frenata del convoglio, a cavarmi un bulbo oculare - ma temo che Letta, anche riconoscendogli tutta la buona volontà di questo mondo, non abbia più modo di riconnettere se stesso con le persone che vedo qui, davanti ai miei occhi, la cui speranza, più che nel "cambiamento" tanto sbandierato, è riposta in un’esistenza in cui, almeno, nessuno rompa più loro le scatole». Sembrava di leggere negli occhi di tutti, compresa la coppia sovrappeso appena salita sui miei alluci, una sorta di cedimento, ovvero la tentazione di passare il presente così come è ridotto, irriconoscibile e frantumato, ai figli, dicendo loro: «Ecco, vedete voi cosa potete fare. I pezzi dovrebbero esserci tutti. A parte, naturalmente, quelli che si sono fregati».

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