Credo di aver già confessato, tra le righe di questa rubrica, una mia inaspettata predilezione per la trasmissione "Masterchef Italia", versione nazionale di un format collaudatissimo all’estero. "Inaspettata" si intende per me stesso, storicamente, se così posso dire, refrattario ai "reality" per i quali la definizione «chissenefrega se Gigetto o Luisella supereranno la selezione» mi è sempre sembrata più che accettabile. "Masterchef" però, a furia di soffritti, intingoli e aromatizzazioni al timo, si è insinuato nella mia testa e fatica a uscirne.
Di colpo, mi scopro a considerare con tutta serietà domande che, fino a poche settimane fa, non mi sarei mai immaginato di poter concepire: «Riuscirà Tiziana, con soli cinque minuti rimasti, a impiattare il piccione?»; «Che cosa succederà se, invece di usare il burro acidulato, Ivan servirà l’astice con una salsa troppo dolce?» Questioni capaci di tenermi sull’orlo della sedia come, ai tempi, le pellicole di Hitchcock facevano con le masse al cinema. Giuro che l’altro giorno, di fronte alle difficoltà di Andrea con i maltagliati al limone, ho quasi avuto una crisi isterica.
A questo punto non ho potuto fare a meno di chiedermi perché. Quella per "Masterchef" potrebbe essere solo l’attrazione per un programma di intrattenimento ben congegnato e ben eseguito. Sentivo però che c’era qualcosa di più: "Masterchef", ho concluso, arriva a interagire con qualcosa di profondo e universale. Davanti al branzino in guazzetto di Daiana ho capito di che cosa si tratta: attraverso la metafora della cucina "Masterchef" rappresenta, in sedicesimo, tutte le componenti sociali e gli atteggiamenti politici italiani. C’è chi cucina in modo conservatore o addirittura reazionario, chi progetta rivoluzioni gastronomiche velleitarie, chi traccheggia con bonarietà sulle ricette della nonna e chi, sotto la salsa, nasconde un’endemica incapacità. Non dimentichiamo, poi, che è una gara e come tale avrà un vincitore: quello, si prevede, che pagherà i clienti perché scelgano il suo ristorante.
Di colpo, mi scopro a considerare con tutta serietà domande che, fino a poche settimane fa, non mi sarei mai immaginato di poter concepire: «Riuscirà Tiziana, con soli cinque minuti rimasti, a impiattare il piccione?»; «Che cosa succederà se, invece di usare il burro acidulato, Ivan servirà l’astice con una salsa troppo dolce?» Questioni capaci di tenermi sull’orlo della sedia come, ai tempi, le pellicole di Hitchcock facevano con le masse al cinema. Giuro che l’altro giorno, di fronte alle difficoltà di Andrea con i maltagliati al limone, ho quasi avuto una crisi isterica.
A questo punto non ho potuto fare a meno di chiedermi perché. Quella per "Masterchef" potrebbe essere solo l’attrazione per un programma di intrattenimento ben congegnato e ben eseguito. Sentivo però che c’era qualcosa di più: "Masterchef", ho concluso, arriva a interagire con qualcosa di profondo e universale. Davanti al branzino in guazzetto di Daiana ho capito di che cosa si tratta: attraverso la metafora della cucina "Masterchef" rappresenta, in sedicesimo, tutte le componenti sociali e gli atteggiamenti politici italiani. C’è chi cucina in modo conservatore o addirittura reazionario, chi progetta rivoluzioni gastronomiche velleitarie, chi traccheggia con bonarietà sulle ricette della nonna e chi, sotto la salsa, nasconde un’endemica incapacità. Non dimentichiamo, poi, che è una gara e come tale avrà un vincitore: quello, si prevede, che pagherà i clienti perché scelgano il suo ristorante.
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