Forse saprete, se avete l’abitudine di frequentare questo angolo, che da tempo conduco un mio personale duello con il sistema ferroviario lombardo. Questo significa che, di tanto in tanto, non esito a criticare quella rete di trasporto che, a patto di essere pesantemente ubriachi, non si potrebbe che definire efficiente.
Penserete, a questo, punto, che si tratta di meschinerie: piccole vendette di un passeggero maltrattato. Non è così: sono ormai oltre i maltrattamenti e il risentimento che ne consegue. Ormai ho accettato il mio destino di pacco affidato a mani inefficienti quando non incapaci e, con spirito sereno e rassegnato, mi limito a osservare ciò che mi circonda.
E’ curioso notare, per esempio, come l’amministrazione ferroviaria sembri eccezionalmente preoccupata dalla possibilità che frotte di passeggeri possano precipitare nella «distanza tra il treno e la piattaforma» o, come ci viene detto in inglese (noi trenisti siamo gente di mondo) nel «gap between the train and the platform». Una preoccupazione così tenace da aver indotto i dirigenti ferroviari a tappezzare i treni di avvisi a prestare attenzione, appunto, all’infido gap. Come se questo fosse l’unico problema che davvero li riguardasse.
Poco importa che il sistema ferroviario non sia in grado di adempiere alla missione per la quale è stato allestito (portare a destinazione i passeggeri in tempi ragionevolmente prevedibili senza trattarli come bestiame): ciò che conta è che nessuno precipiti nel “gap”.
Immagino gli alti vertici delle ferrovie arrivare in ufficio, al mattino, con il volto tirato. Subito convocano gli assistenti: «Ebbene? Come è andata ieri? Quanti ne abbiamo persi nel “gap”?». «Cattive notizie, capo: a Canegrate ci siamo giocati un intero gruppo di turisti giapponesi. Son finiti nel “gap” uno dietro l’altro senza proferire parola». «Maledizione! E poi?». «Guai anche a Bollate Nord: un plotone di svizzeri, pensando che i treno fosse in orario, ha cercato di salire. Il treno non c’era: tutti nel “gap”, precipitosamente».
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