Divento sempre più irritabile con le cose (e, qualche volta, le persone) che sprecano il mio tempo. Non mi riferisco a grandi sprechi di tempo: ore, o addirittura giornate. Questo tipo di sprechi - che procedono, direi, per bancali, per container - sono generalmente dovuti a impegni dai quali, per una ragione o per l’altra, risulta difficile sottrarsi. Si tratta di impegni indesiderati, altrimenti non li considereremmo perdite di tempo, ma appartengono comunque alla nostra vita modo funzionale: la loro presenza dipende da scelte fondamentali, basilari, e ne rappresentano una indesiderata conseguenza. Per eliminarli, dovremmo ripensare l’impostazione nella nostra esistenza fin dalle radici.
Senza andare così lontano - e così nel profondo - ci sono perdite di tempo minime, quasi di scarto, che sono irritanti appunto perché futili e triviali. Penso ai computer che si bloccano - il meccanismo interno, pure se elettronico, in quei momenti sembra impastato, vinto dallo sforzo, in stallo - e i secondi passano senza che nulla accada. Penso al traffico, ai ritardi dei mezzi pubblici; penso alle piccole interferenze che, non sempre senza malizia, il prossimo butta sul nostro cammino. Penso alla mia stessa pigrizia che, spesso, costringe il mio corpo all’inerzia perfino a dispetto di un sollievo che, a ben guardare, sarebbe a portata di mano. Penso a tutto il tempo che in questo modo se ne va, immagino di sommarlo, di ottenere uno smisurato prodotto dell’addizione e mi arrabbio.
Ancora più mi arrabbio quando, finalmente, riesco a essere onesto con me stesso e a comprendere quanta meschinità ci sia in me nel momento in cui me la prendo con queste insignificanti briciole di tempo perduto, quando mi rendo conto che è tutto un pretesto per evitare di affrontare la grossa, imponente questione di ciò che faccio nella vita, di ciò che vorrei fare e di quanta procrastinazione rallenta lo sforzo di far coincidere la prima cosa con la seconda. Più facile prendersela con un computer lento.
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