Ultima speranza

Ho scoperto l'altro giorno, con sorpresa, che i responsabili degli istituti di ricerca di mercato - i cosiddetti "sondaggisti" - non vivono affatto in remote caverne, non si sono fatti crescere lunghe barbe e, al citofono, rispondono ancora con il loro vero nome. Bizzarro, visto che le loro prestazioni nel corso delle ultime elezioni politiche e regionali avrebbero suggerito precisamente questo comportamento: defilarsi dal consesso umano, almeno per un po', quanto basta perché la memoria collettiva - che in molti casi ha dimostrato di essere labilissima - cancelli il penoso responso degli "instant poll", quelli che davano Bersani incoronato Imperatore, Grillo allo 0,2 per cento e il Pescara favorito sul Real Madrid.

Salta fuori invece che i sondaggisti sono ancora tra noi e, come se nulla fosse, continuano a fare sondaggi. Soprattutto, continuano nella pretesa di saper mettere a fuoco le sfumature della società. A me pare che nessuno, men che meno gli istituti di ricerca, capisce come davvero la pensa la gente, neppure la gente stessa quando scrive, sui social network, la propria opinione.

Un recente studio ha dimostrato come giudicare la reazione popolare davanti a certi eventi di portata mondiale o nazionale sulla base dei messaggi lanciati attraverso un mezzo pur diffuso come Twitter sia "fuorviante". Basandosi sul pubblico statunitense, lo studio ha rilevato come, in generale, le reazioni della comunità Twitter siano più progressiste di quanto non risultino essere quella della società "reale".

Volendo generalizzare, potremmo allora dire la democrazia online non funziona. O meglio, che non è affidabile: precisamente come la democrazia tradizionale. Che l'errore sia introdotto dalla natura del mezzo stesso - Twitter o i sondaggi tradizionali - o da una più recondita inafferrabilità del sentimento popolare, alla fine poco importa: nessuno riesce ad anticipare con assoluta precisione gli umori della massa. E in ciò risiede la nostra ultima speranza di rimanere liberi.

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