Il campanello d’allarme, come si usa dire, è scattato un paio di giorni fa davanti a un titolo online di questa fattura: «Il Salento ricorda il suo tenore di grazia: 50 anni senza Tito Schipa».
Con tutto il rispetto di Schipa e della sua arte, come si vede ancora memorabile, non è di lui che vorrei parlare, ma degli anni “senza di lui” o, ancor meglio, di questa espressione ormai in uso nei media per cui quando qualcuno è morto ormai da una cifra tonda si dice che sono stati anni “senza” costui o costei. Ieri, per esempio, 4 gennaio 2016, scadeva «un anno senza Pino Daniele» come il Corsera, insieme a tante altre testate, ci ha puntualmente ricordato.
Non vorrei si pensasse che è mia intenzione mancare di rispetto a Schipa, Daniele o a chiunque altro dovesse venir fatto oggetto di questa forma di commemorazione. È la formula stessa a lasciarmi perplesso.
Certo, a prima vista sembra un perfezionamento della tradizionale, e un po’ aterosclerotico, sistema di annunciare la ricorrenza: «Cinquant’anni fa moriva il tenore Tito Schipa». La formula del “senza” sottolineerebbe invece il vuoto, la mancanza, il tassello sottratto al mosaico emotivo delle nostre vite dalla scomparsa dell’artista in oggetto. Addirittura, si vorrebbe che, guardando indietro agli anni “senza”, tracciassimo un bilancio delle nostre esistenze mutilate di quella presenza: anni perduti, nientemeno, con nulla a cui appigliarsi se non il ricordo.
Nella pratica, la formuletta è stata presto assorbita nei ranghi del “cliché” e, come tale, ben che vada passa inosservata, altrimenti, perdonatemi se lo dico, finisce per far sorridere.
Davvero in noi c’è tanta sensibilità da avvertire, per cinquant’anni filati, la mancanza di Tito Schipa? O non sarà che nell’uso della lingua, ormai, ci piace fare un po’ i fenomeni, introducendo in essa sentimenti preconfezionati? Meglio un anniversario vecchio stile, allora, che ci costringe ad aggiungere di persona l’ingrediente essenziale: il cuore.
© RIPRODUZIONE RISERVATA