Il marketing ha ragioni che il cuore non comprende e su questo ci sono pochi dubbi. Di conseguenza, non discuto il diritto di Marchionne e dell’Alfa Romeo di ripescare (stavo per scrivere: riesumare) il nome “Giulia” e appiccicarlo su un nuovo modello di automobile. “Giulia” fa parte della storia dell’Alfa, rievoca un passato glorioso e soprattutto trasmette l’idea che nulla è cambiato, se non in meglio: in questa ottica, l’Alfa Romeo di oggi sarebbe l’Alfa Romeo di ieri tecnologicamente aggiornata. Io, però, obietto (tanto nessuno mi ascolta).
Il signor Marchionne può fare quello che gli pare, ma io so bene che la sua “Giulia” non potrà mai essere la mia Giulia, almeno che non sia proprio la Giulia di mio padre, modello 1300 TI della fine degli anni Sessanta. Non una questione di egoismo: piuttosto, di autodifesa.
Una casa automobilistica passata attraverso indicibili disavventure finanziarie e industriali decide - in tutta legittimità, ripeto - di sfruttare il passato per migliorare il futuro senza rendersi conto che quel passato per molti è ancora vivo e non soltanto in termini di revival commerciale Per me, e per la mia generazione, la “Giulia” è un riferimento ancora presente, un rigo della nostra biografia, un personaggio immortalato nella foto di gruppo delle nostre vite. Altri proveranno lo stesso attaccamento per marchi e modelli diversi - dalla Seicento alla Fiat 130, dalla Lancia Fulvia alla Simca 1000: allora, una o l’altra di queste auto era questione di reddito e di posizione sociale, oggi tutto si mescola e diventa una faccenda di riconoscimento generazionale. I cinquantenni di oggi sono cresciuti in una stagione in cui i marchi industriali erano umanizzati dai Caroselli e, grazie al boom economico, le automobili entravano in famiglia come cugini aggiunti, sorelle meccanizzate, zii ruggenti.
La Giulia di Marchionne non è dunque la stessa cosa di quella vecchia: al massimo, si tratta di un caso di omonimia.
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