Parliamo spesso dei selfie e quasi sempre con ironia: in che tempi superficiali, viviamo! E quanta vanagloria! Non c’è dubbio - è di solito la conclusione - siamo nell’era del Narciso. I “selfie” delle celebrità - specie quelle da rotocalco, ampiamente seguite anche da siti d’informazione che si vorrebbero seriosi - raccolgono i commenti più acidi: ma guarda quella sgallettata! Ma che brutta è diventata la Tale! E la Talatra? Troppo secca, troppo grassa, troppo rifatta.
Si potrebbe dire che l’unico momento in cui non guardiamo al selfie con una sorta di sovrano disdegno è quando ne scattiamo uno noi stessi. Allora tutto cambia, perché, nel nostro caso, l’autoscatto (un tempo si chiamava così) diventa perfettamente giustificato: eravamo in vacanza, era l’ultimo giorno della dieta, avevamo incontrato la nostra rockstar preferita.
Ma se nei confronti dei selfie altrui siamo critici e quando scattiamo il nostro ci scopriamo indulgenti, che cosa accade nel momento topico, quello che cade immediatamente dopo il clic, quando, cioè, siamo posti davanti al risultato dello scatto?
Lo domanda è stata raccolta da alcuni ricercatori dell’Università Yonsei di Seoul, in Corea. Purtroppo la risposta potrebbe non piacerci: secondo gli studiosi il selfie induce in chi lo scatta dubbi circa il suo aspetto fisico, ripensamenti sull’immagine che proietta nel mondo e diminuisce in modo significativo la sua autostima. Questo, fino a quando non lo condivide sui social. Allora la pattuglia degli “amici” si occuperà di restaurare la perduta disinvoltura: “Bellissimo!”, “Ma che splendore!”, “Come fai a non invecchiare mai?”
Inconsciamente, i selfie - che nascono per essere condivisi, altrimenti non esistono - alimentano un circolo vizioso di stimolazione dell’io attraverso una previa, minuscola, diminuzione dello stesso. In altre parole: ci feriamo per aver la scusa di farci soccorrere e coccolare. Meglio, allora, la “solita” foto del gatto e del cane che se la dormono, indifferenti, sopra un cuscino di “like”.
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