Un gioco per altri

Non disprezzo affatto il gioco del Monopoli ma credo di non essere mai riuscito a finire una partita. Il che riassume il mio atteggiamento nei confronti del capitalismo: non lo odio, si potrebbe addirittura dire che lo rispetto, ma non ho mai avuto la costanza di arrivare fino in fondo nella comprensione dei suoi meccanismi.

Credo che il Monopoli - tra i pochi giochi da tavolo classici sopravvissuti all’ondata elettronica - continui a raccogliere un discreto successo anche qui da noi ma, in tutta onestà, va riconosciuto che è un passatempo per altre latitudini: quelle investite dalla Riforma protestante, quelle che hanno conosciuto il rigore del calvinismo e non temono di prendere schiaffoni dalla “mano invisibile” di Adam Smith.

Chissà, forse ci insospettisce un gioco in cui la vittoria sull’avversario ha un carattere esclusivamente economico, in cui la soddisfazione per il successo personale predomina sul godimento per il fallimento altrui. Che gusto c’è a possedere Parco della Vittoria se non si esulta nel vedere il nemico correre a nascondersi in fondo al Vicolo Corto? Che brivido si potrà mai provare a possedere tutte le stazioni ferroviarie e la società elettrica se ciò non equivale a costringere gli altri ad andare a piedi o a lasciarli al buio?

Allo scopo di rinfrescare la memoria al pubblico americano circa il fascino del gioco del Monopoli, di recente una rivista newyorkese ha pubblicato una sorta di vademecum per vincere al gioco, o almeno per impostare la strategia giusta per cercare di vincere. Sembra di leggere un trattato di macroeconomia: «La chiave è nella negoziazione», «Evitate di imporre agli altri giocatori condizioni troppo dure», «Muovetevi in fretta sul mercato», «Non prosciugate le riserve di contante». È difficile immaginare tre o più giocatori italiani attorno a un tavolo comportarsi secondo i dettami di cui sopra. Ci sarà sempre quello che, a un certo punto, salterà su a gridare: «Ma era fuorigioco!»

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