Un nome per tutto, anche quando è niente

C’è tanta impellenza di diagnosi, in questo mondo, che nessuno bada più alle competenze di chi le emette. Dottore, esperto, sensitivo, praticone, amico fidato, chiacchierone da bar, ricerca in Google: se c’è la laurea bene, se no fa lo stesso. La diagnosi, che in medicina sarebbe la determinazione della natura o della sede di una malattia, ha per noi tutti un risvolto molto allettante: trasferisce il problema in una parola, ovvero gli dà un contorno, e quindi dei limiti, nonché - almeno così ci piace pensare - un significato.

La diagnosi stabilisce che è un problema del fegato, oppure un difetto della pompa dell’olio o ancora un’infiltrazione dal solaio: ecco cose circoscritte che si possono affrontare e risolvere. E se non si possono risolvere, almeno sappiamo di che cosa si tratta e, nella disgrazia, procediamo a cercare qualche angolo di sollievo, qualche elemento che aiuti la sopportazione. «Almeno sappiamo di che morte dobbiamo morire» sospiriamo. Sfugge la consolazione che si prova nel conoscere di quale specifica natura è il proprio destino nefasto, ma tant’è: comunque meglio dell’incertezza, quella mai.

Dare un nome alle cose aiuta. Nel nome, pensiamo, c’è molto. Anzi, c’è tutto: per qualche ragione respingiamo l’idea che un nome sia soltanto un’etichetta, una combinazione fonetica ed alfabetica adottata quale convenzione per distinguere un paracarro dall’immortalità dell’anima. L’uno e l’altro nome, pensiamo, si avvicinano invece al nocciolo delle due cose, ne avvolgono la realtà, ne contengono la più pura consistenza.

Se un ungherese dovesse dirvi che, nella sua lingua, la parola “simpatia” si traduce con “együttérés”, dopo averlo guardato con allarme nel timore che abbia inghiottito una gomma da masticare, incomincereste senz’altro a cercare in quel bizzarro mucchietto di vocali e consonanti il suono, la vibrazione che la parola ha anche per voi.

Cerchereste dunque di intuire perché mai “együttérés” deve provocare nella mente e nel cuore degli ungheresi le stesse connessioni che la parola “simpatia” suscita in noi italiani.

Perché così deve essere: la parola, pensiamo, in fondo è la stessa, sia pure travestita da ungherese, e dunque “vuol dire” (anzi “dice” e perfino incarna) “la stessa cosa”. Ma è proprio così?

È forse questo il parallasse che affligge i traduttori, che parola dopo parola si sforzano di ricalcare con la loro lingua un tracciato razionale ed emotivo inciso con una lingua diversa. A ogni passo e a ogni svolta c’è rischio di scivolare, perché scivolosa è la materia stessa delle parole; i significati sulle prime divergono di pochissimo, quasi nulla; poi, con il procedere del viaggio, si divaricano e, se finiscono per incontrarsi, lo fanno proveniendo da direzioni opposte e inconciliabili.

Con tutto questo, noi tutti insistiamo giorno dopo giorno a dire che abbiamo capito, che le cose stanno come diciamo noi.
Noi, che sappiamo leggere la verità in quel che dice chi ci è amico e la menzogna in chi ci è avversario. Noi, che abbiamo un’opinione su tutto, dall’Alaska a Zanzibar passando ovviamente per l’Ucraina. Non è che per caso dovremmo procedere con un poco di umiltà, qualsiasi cosa la parola “umiltà” voglia in realtà dire? Il rischio, sostengono a Budapest, è di far la figura del seggfejek. E ve lo dico con tutta la együttérés.

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