Un parto difficile

Si fa presto a dire sprechi. Si fa presto e si fa bella figura. Al capezzale del corpaccio malandato del bilancio statale, nel considerare le sempre più esose trasfusioni di denaro che i cittadini sono costretti a praticargli, la ricetta di tutti - novelli Galeno di Pergamo, medici e alchimisti insieme - è sempre la stessa: tagliare gli sprechi.

Trattasi di una di quelle parole d’ordine contro le quali c’è poco da dire. È ovvio che bisogna tagliare gli sprechi. A cominciare da quelli che, troppo ingombranti per ricadere nella semplice definizione di sprechi, finiscono dritti in quella di scandalo. E allora tutti d’accordo: basta con stipendi gonfiati e vitalizi ingiustificabili per una classe politica già di per sé sovradimensionata, basta con i rimborsi allegri e, non da ultimo, basta con i privilegi ridicoli quanto meschini: barbieri sottocosto, pranzi a sbafo, regalini e regalucci.

Una volta che avremo tagliato questi sprechi-scandalo, per i quali non c’è chi provi pietà, ci troveremo faccia a faccia con la necessità di eliminare anche gli sprechi meno smodati, quelli, in altre parole, diffusi al punto da non sembrare più tali e diventati così comuni da essere considerati familiari.

I notiziari, ieri, riportavano un’indagine del ministero della Salute secondo la quale il 43% dei parti cesarei praticati in Italia è «ingiustificato». Uno spreco, sostiene il ministero, di 85 milioni di euro all’anno. Ecco: avendo qualche difficoltà tecnica a partorire, potrei anche considerare quegli 85 milioni uno spreco fatto e finito, non diverso dagli spaghetti al tartufo concessi agli onorevoli, ma, temo, tante donne e le loro famiglie non sarebbero d’accordo con me. Eppure, per arrivare al cuore del problema e liberare il Paese dal fardello delle spese inutili dovremo tutti, prima o poi, imparare che spreco non è solo ciò che fa comodo agli altri: qualche volta è anche ciò che fa comodo a noi. Lo impareremo, spero, ma non sarà un parto cesareo.

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