Un simbolo di carta

Parlavo, ieri, dell’iniziativa di alcuni ospedali abruzzesi i quali offrono ai pazienti la possibilità di un’immersione nella cultura: due aspirine e un Tolstoj, insomma.

Scherzavo, nel mio solito, ineffabile aplomb, sostenendo che quella di approfittare della sua impossibilità a lasciare il letto potrebbe essere l’unica occasione per educare l’italiano medio, il quale, dati alla mano, risulta piuttosto refrattario alla lettura (se si escludono Moccia e Faletti e io, senza esitazioni, li escluderei). Far dell’ironia sull’argomento va benone anche perché a prenderlo sul serio viene un groppo alla gola. C’è però, all’orizzonte, una questione sulla quale, prima o poi, saremo chiamati a interrogarci: essa riguarda il modo, il mezzo direi, grazie al quale assimileremo la cultura che vorremo assimilare.

L’interrogativo si presenta tanto più reale e consistente in quanto, meno di un anno fa, il gigante della vendita online di libri e affini Amazon annunciò che, per la prima volta, gli acquisti di libri in carta erano stati superati da quelli per Kindle, lettore elettronico di testi.

La notizia aveva messo a rumore mezzo mondo perché il libro non è solo un oggetto: è un simbolo che presenta un’imponente stratificazione di significati e la sola idea che possa venir soppiantato da una versione elettronica di se stesso solleva in noi torbide inquietudini.

Addirittura, alcuni avevano messo in dubbio la qualità dell’apprendimento, la trasmissione di dati alla memoria garantita da una lettura “elettronica” rispetto a una lettura classica. Vari esperimenti, uno dei quali recentissimo, ha dimostrato che il problema non esiste: si può imparare altrettanto bene su Kindle come su un tomo di mille pagine. Ciò che rimane inconsolabile è il nostro trasporto per l’oggetto tradizionale, per le librerie , per l’avventura di carta che, la sera, ci attende sul comodino. La vera rivoluzione, dunque, non è stata quando ci siamo accorti di aver incominciato a leggere su Kindle: sarà quando non ce ne accorgeremo più.

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