Amo molto, nei ritagli di tempo, aggiornarmi sui più recenti studi pubblicati nel campo della psicologia. Detto così, sembra chissà che: in realtà, esistono sul tema molti siti e blog di facile lettura.
Gli studi psicologici sono quelle cose che vanno a esaminare con estrema serietà quei piccoli e grandi meccanismi che, a volte in modo automatico e in altre più riflessivo, muovono il nostro comportamento durante la giornata. Studiano la paura, il panico, la felicità e la depressione; spiegano perché ci faccia ridere un uomo che scivola su una buccia di banana mentre raramente l’effetto funziona con la buccia di un’albicocca. Inoltre, sono in grado di definire (e per questo in qualche modo circoscrivere) gli umori dei bambini, le turbolenze degli adolescenti e le malinconie degli anziani. Che cosa volere di più? Se solo riuscisse a spiegare perché, all’età di 50 anni, mi commuovo al ricordo delle telecronache di Ennio Vitanza, la psicologia andrebbe proclamata "scienza delle scienze".
Certo, qualche volta non riesce a esimersi da uscite un poco spericolate. Come spiegare altrimenti una ricerca condotta in Germania secondo la quale, come afferma il professor Johannes Zimmermann, «chi usa spesso il pronome "io" denuncia la tendenza a considerare se stesso come un’entità isolata»? Non contento, Zimmermann puntualizza: «Chi preferisce il "noi" rivela interesse per le relazioni sociali».
Non serviva essere professori (e neppure essere tedeschi) per arrivare a questa conclusione anche perché, secondo me, è sbagliata o quantomeno imprecisa. Spesso, qui, io scrivo in prima persona ma credo onestamente di poter dire che non si tratta di un desiderio di isolamento quanto di rispetto: manifesto così la volontà di non imporre ad altri opinioni che sono soltanto mie. E poi solo due o più "io" pazienti abbastanza da affrontare un processo fatto di brevi diffidenze, caute curiosità e umani silenzi possono diventare un vero, solido "noi".
Gli studi psicologici sono quelle cose che vanno a esaminare con estrema serietà quei piccoli e grandi meccanismi che, a volte in modo automatico e in altre più riflessivo, muovono il nostro comportamento durante la giornata. Studiano la paura, il panico, la felicità e la depressione; spiegano perché ci faccia ridere un uomo che scivola su una buccia di banana mentre raramente l’effetto funziona con la buccia di un’albicocca. Inoltre, sono in grado di definire (e per questo in qualche modo circoscrivere) gli umori dei bambini, le turbolenze degli adolescenti e le malinconie degli anziani. Che cosa volere di più? Se solo riuscisse a spiegare perché, all’età di 50 anni, mi commuovo al ricordo delle telecronache di Ennio Vitanza, la psicologia andrebbe proclamata "scienza delle scienze".
Certo, qualche volta non riesce a esimersi da uscite un poco spericolate. Come spiegare altrimenti una ricerca condotta in Germania secondo la quale, come afferma il professor Johannes Zimmermann, «chi usa spesso il pronome "io" denuncia la tendenza a considerare se stesso come un’entità isolata»? Non contento, Zimmermann puntualizza: «Chi preferisce il "noi" rivela interesse per le relazioni sociali».
Non serviva essere professori (e neppure essere tedeschi) per arrivare a questa conclusione anche perché, secondo me, è sbagliata o quantomeno imprecisa. Spesso, qui, io scrivo in prima persona ma credo onestamente di poter dire che non si tratta di un desiderio di isolamento quanto di rispetto: manifesto così la volontà di non imporre ad altri opinioni che sono soltanto mie. E poi solo due o più "io" pazienti abbastanza da affrontare un processo fatto di brevi diffidenze, caute curiosità e umani silenzi possono diventare un vero, solido "noi".
© RIPRODUZIONE RISERVATA