Ho sempre avuto una grande ammirazione per le persone che parlano molte lingue. Ammirazione condizionata da una premessa: il sospetto. Quando apprendo che un certo individuo proclama di conoscere svariate lingue - qualcuno arriva a sei o sette ma non di rado si spinge a dieci - mi predispongo all’applauso, tanto più sincero ed entusiasta una volta che sarà stato risposto in modo soddisfacente alla domanda che l’istinto mi porge come preventiva: «Proprio vero?»
Che cosa significa, infatti, conoscere una lingua o, meglio ancora, che cosa vuol dirle «parlarla»? Quale grado di padronanza di un idioma autorizza ad affermare che lo si «conosce? A che punto complessa deve essere la conversazione che si è capaci di sostenere per essere onesti quando si dice di saperlo «parlare»?
Se «parlare» una lingua significa massacrare le espressioni «buongiorno» e «buonasera» (alla distruzione di «buonanotte» non voglio neanche pensare), nonché sostenere con singolare convinzione che «the cat is on the table» quando non ci sono né gatti né tavoli in vista e vantarsi di aver ordinato rum nei peggiori bar di Caracas ottenendo in cambio candeggina, allora, secondo me, non ci siamo.
Conoscere una lingua significa innanzitutto comprenderla. Non basta aver afferrato l’espressione necessaria a chiedere del gabinetto più prossimo: per aggiungerla alla lista delle lingue «conosciute» bisognerebbe, a mio avviso, saperne cogliere i “colori”. Sarebbe questo il procedimento che consente di afferrare, in una frase, il sottotesto: l’affermazione è ironica, categorica, vaga, disperata, amara, scherzosa, aggressiva? Oppure, come quasi sempre accade, è una mescolanza, in varie proporzioni, di due o più di queste cose, proprio come accade sulla tavolozza di un pittore (ed ecco perché mi sembra giusto parlare di “colore”)? A insistere nel raggiungere questo livello di conoscenza, sarebbe già motivo di legittimo orgoglio poter dire di conoscerne una, di lingua.
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