Immagino che termine più pretenzioso di “Schadenfreude” sia difficile da reperire nell’accingersi a commentare l’ennesimo fallito assalto della Juventus alla Champions League. Una certa saccenza, qui, è necessaria: primo perché è un po’ la cifra stilistica di questa rubrica, e poi perché il commento di cui sopra arriverà senz’altro buon ultimo e qualcosa bisogna pure inventarsi.
“Schadenfreude” viene dal vocabolario tedesco e sta significare gioia o compiacimento per le disgrazie altrui. Alla fine della partita con il Lione mezza Italia è esplosa di “Schadenfreude” e non ha avuto timidezze nel farlo sapere in giro. L’artiglieria dell’ironia più pesante ha fatto sentire il suo rombo per ore e ore nei social media e ancora nelle ore tarde delle giornata di sabato il fuoco di sbarramento sembrava non avere intenzione di placarsi.
Bisogna capire: il rinnovarsi anno dopo anno del mancato aggancio bianconero con la Coppa più ambita non può produrre altro effetto che aumentare il volume della “Schadenfreude” nei tifosi non-bianconeri i quali, peraltro, hanno bisogno di dosi sempre maggiori del velenoso sentimento tedesco per compensare il crescente sconforto indotto dalla regolare, implacabile conferma dell’imbarazzante fallimento delle loro squadre del cuore, incapaci di spezzare, nel campionato italiano, un dominio juventino che dura da nove stagioni.
E allora giù di “Schadenfreude” , come fosse schnapps, roba buona soprattutto per dimenticare le proprie disgrazie, non certo per festeggiare inesistenti conquiste.
Ma non è il caso di essere troppo duri con i tifosi posseduti dalla “Schadenfreude”: in dosi ragionevoli è un intruglio di cui tutti abbiamo bisogno. L’esistenza ci impone spesso confronti con il prossimo: è grazie a queste rilevazioni della nostra posizione sulla scala del successo (una semplice estensione di quella del fallimento) che ci si presenta l’occasione di fare due conti con noi stessi. Il risultato è spesso mortificante, non stupisce che occorra un po’ di “Schadenfreude” per rimetterci in piedi. In fondo, godere - con misura - dell’insuccesso altrui è quasi un passo avanti. L’alternativa, è sprofondare nell’invidia.
Si dirà: c’è sempre la possibilità di comportarsi bene ovvero, per gli sportivi, di gioire per le vittorie altrui e per ognuno di noi di provare sincera felicità per il successo o la fortuna di un buon amico.
È giusto sperare che questo avvenga, ma è illusorio pensare che, un giorno, ciò diventi il sentimento più diffuso di fronte all’eliminazione di una squadra “nemica” dalla Champions o alla mancata promozione di un collega con cui ci sentiamo in competizione. L’uomo in sé ha bontà, generosità e altruismo ma non può uscire da se stesso al punto da fare di queste qualità il tratto uniforme della sua condotta. Non chiameremmo più santi gli uomini buoni ed eroi quelli coraggiosi, non ci sarebbe più motivo di eleggerli a esempio e di costruire sulle loro vite una narrativa destinata a indicare la strada giusta alla collettività. Teniamoci un pizzico di “Schadenfreude”, allora, magari ricordandoci di contrastarlo con un po’ di vergogna: una parola che non viene dal tedesco ma, chissà perché, nessuno la capisce più.
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