Una tazza di pedanteria

Una tazza di pedanteria

L’articolo occupava, mercoledì, un’intera pagina del Corriere della Sera e, a prima vista, sembrava una gran perdita di spazio e di tempo.
Christoper Hitchens, scrittore inglese, aveva ritenuto opportuno impiegare tale esteso (e prestigioso) rettangolo di carta stampata al solo scopo di ristabilire alcune essenziali verità in merito al tè, ovvero alla tradizionale preparazione del medesimo, rito insidiato, a suo dire, da approssimazione, ignoranza nonché pura e semplice sciatteria.
La mia prima reazione è stata: «Ma guarda che spiegamento di snobismo e pignoleria». In fondo, per ricordare alcune «regole d’oro» dell’infusione, Hitchens avrebbe potuto accontentarsi di venti righe invece di duecento: «Si versa l’acqua (bollente) sulla bustina, non si immerge quest’ultima nell’acqua; meglio ancora, si usano le foglie sciolte; chi intende aggiungere latte, scelga quello scremato, da versare solo a infusione completa».
Ripensandoci, però, la precisione di Hitchens, il suo puntiglio un poco altezzoso, l’inesorabile lentezza con cui ha inteso sottolineare gli affronti più comuni portati alla tradizione del tè, hanno una loro valente ragione e rappresentano, se non altro, una giustificata protesta contro la svogliata praticità alla quale consegniamo oggi ogni minuta pratica conviviale. Con il suo articolo, Hitchens ha dimostrato che, tra tutti i difetti passati di moda, la pedanteria è certamente il più utile e virtuoso.

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