Uniti per forza

Ci sono giorni in cui non riesco a resistere alla tentazione di leggere notizie che riguardano l’Europa. L’esperienza è immancabilmente frustrante e me ne pento subito. Però appartengo anch’io al mondo e, se non altro per la professione che faccio, bisogna che mi tenga informato.

A proposito di Europa, leggo dunque in un sussiegoso editoriale online che la Gran Bretagna potrebbe a breve avanzare una richiesta di revisione della propria adesione all’Unione europea. Questo accadrà soprattutto se David Cameron, l’attuale premier conservatore, vincerà la elezioni nel 2015. Ora, per noi il 2015 è molto lontano - Dio solo sa quante rate dell’Imu avremo pagato prima di allora e per beneficiare chissà quale governo - ma gli inglesi ci stanno già pensando anche perché, come si sa, da quelle parti piove perfino più che quaggiù e spesso non c’è di meglio da fare.

Senza troppo sforzo, l’editoriale ipotizza che questa mossa di Londra scatenerà una reazione a catena. Berlino vorrà mettersi di traverso, Parigi incomincerà a cantare il demi demi, Madrid slitterà sul bagnato, Lisbona vorrà annettersi alla Nuova Zelanda e Dublino griderà dal pantano. Si scateneranno, insomma, quelle forze centripete che, a scadenza regolare, sembrano voler sconquassare un’unione fragilissima.

Non che lo sconquasso succederà per davvero. La cifra caratteristica di questa stagione storica sembra proprio questa: la convivenza forzata e forzosa tra entità che, per carattere e radici storiche, sembrano destinate a poter soltanto litigare. Accade in Europa, accade nel nostro governo e, non di rado, riscontriamo la stessa situazione negli uffici e nelle fabbriche. Non so se questa sia una conquista della civiltà o piuttosto un cortocircuito storico. Per istinto, non mi sento di disprezzarlo a priori: quando, in nome dell’autonomia di bandiera, i popoli hanno avuto libertà di scontrarsi, lo hanno sempre fatto. E qualcuno ci ha lasciato la pelle.

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