Dunque: un giornale di destra ha fatto un titolo birichino (ormai troppo noto perché sia necessario ripeterlo qui) sulla sindaca di Roma Virginia Raggi e in tanti si sono indignati, finendo per coprire il giornale di insulti. Il giornale di destra si è indignato a sua volta e a sua volta ha insultato i suoi critici senza però difendere il titolo nella sostanza: ha detto soltanto che anche gli altri fanno, di tanto in tanto (anzi: spesso), uscite volgari e sessiste contro gli avversari ma nessuno dice niente: quindi, perché due pesi e due misure?
In tutto questo, non trovo chi ha torto. Ha ragione chi dice che il titolo del giornale era brutto anzichenò, ha ragione il giornale nel sottolineare di non essere certo l’unico a usare armi polemiche tanto dentellate. Dunque, potremmo chiudere qui una contesa che, fossimo all’asilo Mariuccia, dovremmo senz’altro ammettere per stellare.
Purtroppo in questo spazio non si vola così alto e l’unico “sequitur” che viene in mente consiste nel chiedersi se la sottocultura dell’insulto da ultimo banco - quella fila popolata da discolacci che fanno le pernacchie e bollano i compagni di classe con soprannomi ispirati a presunti difetti fisici o ad ancora più presunte (e relative) deficienze morali - sia davvero inevitabile, incisa nella storia, elemento fondante del Dna umano, o se, prima o poi, si potranno indirizzare le intelligenze - anche quelle un po’ smandrappate dei suddetti discolacci, di qualunque colore essi siano - verso discussioni più rispettose delle individualità senza per questo rinunciare a veemenza polemica, critica sociale e, men che meno, a un vivificante senso dell’umorismo.
Personalmente, penso che mai riusciremo a rinunciare a certe smagliature. Al massimo, potremo cercare di elevarle. «Se fossi sua moglie le metterei il veleno nel tè» disse Lady Nancy Astor a Winston Churchill, il quale replicò: «Se fossi suo marito lo berrei». Anche lui si rivelò per sessista. Ma ne valeva la pena.
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