Confesso di non aver seguito con attenzione il dibattito intorno alla figura di Matteo Renzi: per favorire l’autogratificazione sessuale trovo più stimolante un altro tipo di letteratura illustrata.
Pur nell’ignoranza - e dove, se no? -vorrei comunque intervenire per presentare al riguardo un concetto che, da qualunque punto lo si esamini, mi appare inattaccabile: il “nuovo che avanza” non può restare “nuovo” in eterno. Prima o poi dovrà - come posso dire? - sbocciare, esprimersi, trasformare la promessa in mantenimento della medesima. Se non ci riesce, vuol forse dire che non era “nuovo” abbastanza, o forse non “avanzava” a sufficienza.
C’è chi invece si è inventato un mestiere molto particolare: quello di chi sta per fare la rivoluzione ma poi - colpa dell’arbitro, del sole negli occhi e di una contrattura - non combina niente e, avendo parecchio tempo a disposizione, finisce per parlare profusamente della mancata impresa con accorati accenti di rimpianto.
Non ho in mente il solo Renzi ma tutta una categoria di personaggi - appartenenti alla politica come al giornalismo, all’imprenditoria come alla cultura - per i quali rappresentare il nuovo è diventato un vecchio trucco. L’importante è non spingersi mai troppo oltre nelle istanze di rinnovamento, in modo da evitare il rischio di ritrovarsi per davvero a sostituire il “vecchio” e, per conseguenza, a doversi far carico di impegni e responsabilità.
Pare quasi si sia instaurato, tra “nuovo” e “vecchio”, un patto di non aggressione: il “nuovo” è ben attento a non diventare “vecchio” e in cambio ne ricava l’attenzione dei media, il corteggiamento degli insoddisfatti, l’adulazione degli intellettuali; il “vecchio”, pressoché indisturbato, mantiene il suo status, esercita i suoi privilegi e, cosa che con il passare del tempo diventa sempre più apprezzabile, finisce per attirare meno l’attenzione.
Siamo oltre la gattopardesca simulazione del cambiamento: ora si finge di non poter cambiare in modo da immortalare la propria aura di innovatori.
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