Leggo commenti di colleghi che rispetto e ammiro e resto interdetto: vi siete bevuti il cervello? Che cos’è tutto questo scrupoleggiare davanti a un video che “fa vedere” un omicidio, anzi due, al prezzo di zero? Proprio adesso che ci è passata per le mani la pietra filosofale del giornalismo contemporaneo ci mettiamo a far le verginelle? No, per carità, questo non si può fare. È scandalismo, sensazionalismo, sfruttamento della morbosità. Certo che lo è, e allora? Diciamo le cose come stanno: ai protagonisti dell’episodio di Roanoke (le vittime Alison Parker e Adam Ward, l’assassino Bryce Williams) va assegnato un Pulitzer a testa. Triste - ma necessario - che due di questi prestigiosi premi debbano essere alla memoria.
Non fate quelle facce. L’episodio della “morte in diretta” rappresenta il raggiungimento del giornalismo 2.0: “far vedere” le cose (non documentarle) mentre avvengono, meglio se cose cruente che consentono di cogliere (non di analizzare) le reazioni delle persone in situazioni estreme.
Il video del delitto in Virginia è dunque il distillato perfetto di un tipo di informazione che sfrutta fino in fondo l’effetto “incidente stradale” moltiplicato dalla tecnologia. Tutti rallentano e guardano sulla scena di un incidente: è umano. Il giornalismo 2.0 cerca vuole proprio questo: farvi rallentare davanti a un’immagine insolita, inquietante e, soprattutto, colta quasi per caso e dunque tanto più “vera”, ovvero spontanea. Il vostro rallentamento crea contatti, volumi, affari. In più, si colloca perfettamente in questo scorrere interminabile di cose che “si vedono” mentre accadono - vacanze, torte alla frutta, gente decapitata dall’Isis, code in autostrada, gattini, nubifragi e cotillons - e che vanno a riempire lo spazio infinito della nostra noia. Nulla di questo lascia traccia, nulla insegna qualcosa. Ma perché dovrebbe? Lo sappiamo da sempre: chi studia quando può “guardare”?
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