Non c’è modo di considerarmi un grande appassionato di fantascienza. Ho apprezzato, e apprezzo, opere del suddetto genere che si sono espresse attraverso il cinema, la letteratura e i fumetti ma non posso davvero affermare di esserne un avido consumatore. Riconosco peraltro che ci sono stati autori di fantascienza davvero notevoli: i primi nomi che mi vengono in mente sono quelli di Ursula K. Le Guin e di Philip K. Dick.
Imputo alla fantascienza più recente di avere in qualche modo fallito nell’interpretare i segnali di quel futuro che, ormai, è diventato presente.
Gli ultimi a riuscirci, sarei tentato di dire, sono stati H. G Wells e Jules Verne: dopo di loro, soltanto una teoria di “fantasticatori” più o meno originali i quali, troppo spesso, hanno immaginato un’umanità a spasso su astronavi, calata in uniformi d’argento e con la pistola-laser stretta in cinta. Una visione relativamente deludente. Tutto ciò che, secondo questo modello, l’uomo potrebbe, nel tempo, realizzar, sono i viaggi spaziali e l’abolizione delle maniglie: non si è mai visto infatti un film di fantascienza in cui un personaggio incorra nella necessità di aprire una porta facendo uso delle mani.
A quanto pare, mi devo ricredere. Una recente analisi delle opere di Philip K. Dick - l’autore al quale si devono spunti narrativi finiti, tra l’altro, nei film “Blade Runner” e “Minority Report” - sottolinea in modo convincente come molte delle sue “visioni” siano diventate realtà. In particolare, di particolare urgenza sono le domande che già quaranta o cinquanta anni fa egli poneva con forza circa il nostro rapporto con la tecnologia, il mistero dell’identità, il dissimulato controllo che l’autorità esercita sulla collettività e sul singolo.
Un solo problema: Dick - morto nel 1982 a soli 53 anni - era matto come un cavallo. Questo suggerisce che se si è abbastanza pazzi è possibile vedere il futuro ma anche che se si vede il futuro, probabilmente si è abbastanza pazzi.
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