Sembra che una delle preoccupazioni più consistenti dell’uomo moderno - non immediatamente consistenti come la rata del mutuo, ma pressanti in prospettiva futura, come la durata delle risorse idriche - sia quella che i computer potrebbero diventare intelligenti come noi (?) o addirittura surclassarci.
Vorrei rassicurare l’umanità: non c’è pericolo che i computer diventino come noi. Piuttosto, il rischio è che noi si diventi come i computer. Il sospetto mi è balenato l’altro giorno quando, annaspando nello sforzo di richiamare alla memoria un’informazione - il titolo del “live” più famoso della Allman Brothers Band (“At Fillmore East”) - non ho avvertito quel familiare pungolo, quella caratteristica impazienza, quel timore di una prolungata tortura inflitta alle impotenti meningi, che in passato caratterizzavano simili episodi di smarrimento mnemonico. Questo perché, ho presto realizzato, sapevo di poter contare sulla Rete come rapida e pressoché infallibile risorsa per recuperare l’informazione mancante. E infatti così è stato.
Libero dal tormento di non poter accedere a un segmento della mia memoria, ho tuttavia incominciato a sviluppare un altro timore: quello di aver inconsapevolmente consegnato parte delle mie esperienze, delle mie conoscenze, della mia cultura (in altre parole: di me stesso) alla Rete, rinunciandovi, di fatto, per sempre. È un po’ il concetto di “cloud” che oggi impera nel mondo virtuale: possiamo trasferire interi scaffali di memoria dal nostro computer a un supporto “esterno” per recuperarli quando vogliamo. Se vogliamo sapere una cosa, dobbiamo solo ricordarci di essere in grado di saperla, non occorre che effettivamente la sappiamo (chiaro, no?).
Se questa tendenza, volontaria o meno, ad affittare spazi di memoria esterni al nostro cervello si confermerà, saremo noi ad assomigliare ai computer e non viceversa. Addirittura, la nostra memoria potrà essere misurata in giga o terabyte. «Guarda quel tale» diremo, «ha un cervello da 20 Tb». «Sì, ma sempre una testa di cavolo».
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