Della vendetta è stato detto, e ripetuto, che è un piatto da consumarsi freddo. Consiglio da buffet a parte, sul l’argomento hanno riflettuto nei secoli menti acutissime. Molte di queste hanno voluto disinnescarla, condannandola come pulsione volgare e, in ultima analisi, inutile. Il più spiritoso di tutti fu probabilmente Gandhi: «Occhio per occhio » disse , «fa sì che si finisca con l’avere l’intero mondo cieco». Ammesso che con “occhio per occhio” si intenda precisamente la vendetta, è certo un’osservazione penetrante, ma forse Marco Aurelio andò ancor più direttamente al punto: «Il miglior modo di vendicarsi d’una ingiuria è il non rassomigliare a chi l’ha fatta».
C’è poi chi la vendetta la abbraccia, anche se non la persegue attivamente. Famoso il pensiero di quel cinese che invitava a sedersi lungo il fiume per attendere il passaggio del nemico sotto forma di cadavere. Un contesto ideale, tra l’altro, per consumare, nell’attesa, come in un picnic, il piatto freddo di cui sopra.
Giusta o deplorevole, dolce o insapore, la vendetta ha dunque impegnato le menti di molti pensatori, ma soprattutto ha invaso i cuori di una moltitudine. Questo a causa di una realtà che, piaccia o no, dobbiamo affrontare: la vendetta funziona.
Lo dimostra uno studio pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology”: persone che, per una ragione o l’altra, subiscono umiliazioni o vengono fatte sentire escluse dal loro contesto sociale, trovano nella vendetta, ovvero nell’aggressione fisica o psicologica del presunto colpevole dei loro affanni, uno sfogo in grado di «riparare» le loro ferite, ristabilendo così l’equilibrio mentale.
Resti inteso: il fatto che la vendetta funzioni non autorizza nessuno a farne uso su larga scala. «La vendetta più crudele è il disprezzo di ogni vendetta possibile» diceva infatti Goethe, aggiungendo: «Però a chi mi rompe le balle gli tiro in testa l’edizione rilegata delle mie Sämtliche Werke».
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