Oggi sappiamo che la letteratura, quella vera, ci fa comprendere meglio la natura delle persone. La saggezza e la tecnica narrativa padroneggiata dai grandi autori contribuiscono a creare mondi in tutto simili a quello reale, mondi nei quali il lettore viene invitato come testimone. Se sarà osservare, valutare, giudicare avrà fatto della lettura un'esperienza in grado di arricchirlo. Al contrario, la letteratura “finta”, che potremmo definire “fiction”, non esercita sul lettore alcuna proprietà migliorativa e si limita a intrattenerlo.
Tutto questo oggi lo sappiamo per certo grazie alla scienza. Un gruppo di ricercatori ha infatti sottoposto all'attenzione di alcuni volontari un certo numero di brani di letteratura (tra cui opere di Don DeLillo e Alice Munro) e alla lettura di altri stralci di “fiction” molto popolare (Danielle Steele, Rosamunde Pilcher). Risultato: nei primi si è registrata un'accresciuta empatia nei confronti del prossimo mentre ne secondi non se ne è vista traccia.
L'aspetto curioso di questa ricerca - per certi aspetti sorprendente e per altri scontata – è nel tono generale della relazione finale, laddove sembra inteso che la letteratura vera sia “meglio” della fiction. “Vedete?” suggeriscono i ricercatori, “Meglio Jane Austen di Harold Robbins se volete comprendere il prossimo”. Già, ma c'è un particolare: non è affatto scontato che i lettori vogliano comprendere il prossimo. Direi piuttosto che usano la “fiction” proprio per allontanarsi dal prossimo. L'impegno letterario di illuminare i sentimenti con una luce che ne riveli l'intima natura è, al meglio, uno sforzo non richiesto. La lettura fugge piuttosto verso l'improbabile ma più godibile mondo della fiction, laddove i sentimenti sono patinati, dolcificati e resi riconoscibili da codici ormai pienamente accettati.
C'è dell'altro. La letteratura potrebbe presto accorgersi che sentimenti umani da esplorare non ce ne sono più: tanti incominciano a usare, anche nella realtà, quelli della fiction.
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