Viaggio selvaggio

A volte spavento me stesso. Meglio non esagerare: diciamo che mi sorprendo. Alla mia età ciò che stupisce più di ogni altra cosa è scoprirsi capaci di cambiamento. Ammetterete dunque che c’è da rimanere sbigottiti constatando che, dopo anni e anni di assoluta confusione e pressapochismo, ho imparato a fare decentemente la valigia in vista di un viaggio.

Questa acquisita abilità, se così si può chiamare, è naturalmente figlia di un handicap insorgente: la progressiva perdita di affidabilità della memoria. Fare la valigia diventa dunque, per forza di cose, una faccenda organizzata: prima bisogna fare una lista, poi raccogliere gli oggetti in essa elencati, quindi piazzarli nella valigia e, infine, buttar giù una nota da tenere in tasca fino all’ora della partenza: “Ricordati di portare con te il bagaglio”.

Rimpiango un po’, devo ammetterlo, i tempi lontani della giovinezza, quando fare la valigia era un’operazione molto più furiosa e creativa. Un braccio teso a rovistare nell’armadio a casaccio, abbrancavo le prime cose che mi capitavano sotto le dita e le ficcavo in una sacca, perché la valigia, ovviamente, era roba per gente noiosa e attempata. Di solito, finivo per portare con me in numero dispari cose che, per tradizione, tornano utili in paia: calze, scarpe, guanti. Più cura mettevo nel preparare i regali destinati agli amici dai quali mi recavo in visita, specie se questi amici erano stranieri: noi italiani abbiamo sempre l’idea che, specie in fatto di generi alimentari, il resto del mondo viva in uno stato di deprivazione e/o ignoranza.

Oggi invece preparo i bagagli in largo anticipo e con una metodicità che mi sbigottisce. C’è sempre, però, un piccolo “giallo” che felicemente mi riporta ai tempi di “viaggio selvaggio”: nel chiudere la valigia sono certo che dimenticherò qualcosa, e non vedo l’ora di scoprire che cosa. Basterà attendere che sia arrivato a destinazione.

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