La decisione del Comitato olimpico internazionale di equiparare gli “eSport competitivi” (vale a dire i videogiochi) alle attività sportive tradizionali (atletica, nuoto, sport di squadra, traversata domenicale del salotto dal tavolo da pranzo al divano) ha innescato in Rete e fuori ironie scoppiettanti. A prima vista, l’ironia è dovuta: si può paragonare l’impegno dello smanettone da consolle con quello di un atleta che, per arrivare alle Olimpiadi, si allena giorno dopo giorno con immenso sacrificio, dedizione e doping?
Non si può, a prima vista, ma forse si deve. Ormai tutto ciò che avviene al di là dello schermo del computer, nel mondo che ci ostiniamo a chiamare “virtuale”, ha le stesse conseguenze di ciò che accade al di qua, se non di più. Dunque, perché un gol in Milan-Juventus a San Siro dovrebbe contare di più di quello realizzato in un videogioco? Forse perché ci vuole molto talento e molta costanza per arrivare a giocare a San Siro? Sì, ma è anche vero che raggiungere certi livelli di competitività nei videogiochi è altrettanto difficile. Io per esempio avrei la stessa possibilità di segnare in un Milan-Juventus reale e in un Milan-Juventus virtuale ad alto livello: zero. Dunque più che accogliere con entusiasmo gli eSport alle Olimpiadi dobbiamo accettarli come un dato di fatto. Magari l’audience tradizionale delle Olimpiadi, dopo il primo momento di curiosità, andrà calando. Ma forse no: tutti i computer di certo saranno lì a fare il tifo.
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