Ieri, 6 dicembre 2015, II domenica di Avvento, il world wide web aveva in serbo tanti regalini per tutti noi. Considerando soltanto l'homepage di un quotidiano nazionale, ci si offriva la possibilità di vedere – dopo un opportuno spot – dei poliziotti americani abbattere a fucilate un rapinatore, degli agenti inglesi immobilizzare il tale che aveva appena accoltellato un passeggero a caso sulla metropolitana, l'assedio della polizia a un bandito asserragliato in un negozio con degli ostaggi intorno a sé, e la spinta inferta a una donna dall'ex convivente nel tentativo di buttarla sui binari.
Il mito della “morte in diretta” è stato immaginato – o forse vagheggiato – nei decenni scorsi quando la diffusione dei sistemi di presa e riproduzione delle immagini stava diventando un evidente fenomeno: oggi è qui, in tutta la sua evidenza, e come spesso accade in questi casi rivela una banalità che, probabilmente, rappresenta il suo aspetto più pericoloso.
Sembrerebbe porsi il vecchio problema - pubblicare o non pubblicare? - ma non è così. Non pubblicare è una scelta oggi impraticabile – chiunque può accedere alla Rete e non c'è protocollo deontologico che possa intervenire -, e dunque la questione è un'altra: queste immagini ci rendono più consapevoli di ciò che accade intorno a noi o moltiplicano soltanto, rendendolo sempre accessibile, l'effetto incidente stradale, ovvero quello sguardo, eccitato e atterrito insieme, che nessuno di noi sa trattenere davanti alla scena tragica nella quale, un tempo, capitava di imbattersi e che oggi viene servita a un clic di distanza? “Upload” e “download” sono termini diventati a tutti familiari: indica, il primo, il caricamento di un qualcosa in Internet affinché si renda disponibile al secondo, lo scaricamento capillare. L'upload e il download della violenza è oggi un processo continuo e interminabile, ma ancora non sappiamo di preciso che effetto avrà. Questo perché vediamo tutto ma non capiamo niente.
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