Vivere costa

Mi pare di vedervi, miscredenti che non siete altro, uscire da un qualunque luogo di commercio o di esazione - il supermercato, la bottega, lo studio del dentista, l’ufficio postale o quello, forse il più temuto, denominato Agenzia delle Entrate - scuotere la testa e, con un sospiro, emettere l’ormai scontato lamento: «Ma quanti soldi ci vogliono per campare? Possibile che non si faccia altro che aprire il portafoglio e pagare?»

Se siete soli, può darsi che tutto finisca lì. Ma se appena c’è qualcuno a tiro d’orecchio, un conoscente o anche solo un passante in vena di scambiare lagnanze, è molto probabile che trascorrerete il resto della mattinata lanciando improperi per il costo della vita.

Ebbene, sappiate che per quando accorati possano essere i vostri lamenti e dissanguato possa ritrovarsi il vostro portafoglio, in Italia il costo della vita, quello vero, non sappiamo neanche che cosa sia. Il rapporto globale sul costo della vita 2013, preparato dall’Economist Intelligence Unit (mica scherzi) rivela che le città italiane sono ben distanti dai vertici assoluti in fatto di esosità. Ecco la top 10: Tokyo, Osaka, Sydney, Oslo, Melbourne, Singapore, Zurigo, Parigi, Caracas e Ginevra. Noterete l’assenza di Cinisello Balsamo, e ho detto tutto.

Naturalmente, la classifica è stilata su parametri misurati con il Grande Righello Universale: il denaro. Non tiene conto, l’Economist Più-O-Meno Intelligence Unit, dei costi aggiuntivi, non misurabili in quattrini, che i cittadini italiani sono costretti a versare. Ovvero il quotidiano, assillante contributo alla stupidità e all’ignoranza sul cui ammontare si calcola l’aliquota dell’arroganza e che, sommato al tributo sul populismo e all’addizionale sulla paranoia, forma il Prodotto interno lordo della cialtroneria. Un sistema gravoso, esasperante, ormai insostenibile, che drena, oltre al nostro denaro, anche le residue energie morali, collettive e individuali, del Paese. Insomma: a Tokyo la vita costa cara, da noi costa caro vivere.

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