Fa piacere (e tenerezza) che il sobrio saluto con cui Riccardo Cucchi si è congedato dal pubblico di “Tutto il calcio minuto per minuto” al termine della sua ultima radiocronaca sia stato così tanto condiviso e commentato e soprattutto avvolto, come un petto di pollo, in una sfoglia di sapida nostalgia.
Si è trattato evidentemente del coro di una generazione - la mia - che per l’ennesima volta si ribella al tempo che passa, rimane aggrappata ai suoi riti e, sempre più delusa dal “vintage”, ovvero dal falso vecchio, fa scudo attorno a quel poco di autentico che è rimasto: “Tutto il calcio” in testa.
A me piace pensare che il mutare generazionale delle voci calcistiche (facciamo i nomi: Bortoluzzi, Ciotti, Ameri, Provenzali, Ferretti, Luzzi, Foglianese) spaventi perché con la loro scomparsa se ne va anche la garanzia di un calcio più immaginato che visto, più raccontato che analizzato e dunque capace, proprio in virtù della narrazione, di maturare leggende, epiche, fiabe da tramandare.
Un tempo anche l’immagine - in bianco e nero, minuscola e spesso sfocata - contribuiva all’alone di incertezza che accompagnava i calciatori, lontani guerrieri, sul campo. Cercava di squarciare la nebbia dell’ignoto, in tv, solo la moviola di Carlo Sassi che però, tra ombre, luci e movimenti a scatto, sembrava sempre voler stabilire se Neil Armstrong, a spasso nel Mar della Tranquillità, fosse per caso finito in fuorigioco.
Non andava tanto meglio allo stadio, specie da bambini, nei “popolari”, dietro una selva di teste che si alzava non appena il pallone raggiungeva l’area di rigore, e dunque quando l’azione si faceva più interessante.
Tornavamo a casa con la testa piena di brandelli visivi: il profilo sfuggente di un campione, il suo gioco di gambe. Tanti mattoncini da ricomporre con la sola logica della fantasia. Adesso c’è l’alta definizione eppure tutto, calcio compreso, sembra caduto in basso.
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