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Dopo tante chiacchiere, riflessioni, appelli, proclami, propaganda esplicita e sotterranea, insulti, minacce, siluri, sgambetti, battute, feste, strette di mano, fotografie, abbracci, dibattiti, recensioni, pettegolezzi, approfondimenti televisivi, litigi, spettacoli, polemiche, smentite, concerti, raduni e confronti, finalmente tra sabato e domenica si consumerà l’annunciato evento che tutti ci tiene sulle spine: la cerimonia di consegna degli Oscar.

Lo so che l’attesa, spasmodica, vi ha torturato i nervi per tutte queste settimane, anche per il fatto che i media praticamente non hanno parlato d’altro ma, per fortuna, l’attesa sta per finire e sapremo che faccia avrà il futuro del cinema.

C’è il rischio, inutile negarlo, che un altro evento, minore, rischi di turbare il regolare svolgimento degli Oscar. Parlo delle elezioni o, meglio, non delle elezioni in sé, che neanche per ironia possono essere definite evento "minore", ma del rumore di fondo delle medesime: le voci, o vocine, dei candidati in cerca di un posto al sole.

La concomitanza con gli Oscar finisce allora per indurre in noi una forma inedita di nostalgia: quanto vorremmo che al posto dei candidati in lizza, che si presentino in completo blu o imbacuccati nella lana spettinata dei cheguevaristi dell’ultima ora, ci fossero i grandi eroi del cinema. Ma chi, in tutta onestà, potremmo sperare nasconda, sotto il programma elettorale, la paterna onestà di Spencer Tracy, lo splendore ideale di Gary Cooper, l’eleganza sorridente di Cary Grant e l’eroismo domestico dispensato da James Stewart? Nessuno, credo: e non solo perché, invece di stelle del cinema, si tratta di persone reali.

Un’altra ragione è che, noi, un Cary Grant non ce l’abbiamo mai avuto. Abbiamo avuto Alberto Sordi, ma non c’è più. In compenso, a dieci anni dalla morte, le liste elettorale sono piene dei suoi personaggi.

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