Non Santa. Solo Ambrogio

Gli occhioni sbarrati che guardano verso l’alto. Il braccio abbronzato solo fino al deltoide, ca va sans dire. Le orecchie rese ancora più grandi dal casco calato in testa.

Chissà, forse è solo romanticismo, preludio dell’incipiente vecchiaia. Eppure a me ha fatto tenerezza la fotografia di quel bambino che, in sella alla bicicletta, attende il via da parte di un giudice di corsa, con il cuore a metà strada tra l’emozione e il terrore allo stato puro. Solo che quel bambino – 22 anni dopo quel primo colpo di pedale – si chiama Mauro Santambrogio, vive a Erba nel comasco, di professione fa il ciclista. E da giugno non può più correre. L’hanno sospeso per doping dopo i controlli alla prima tappa del Giro d’Italia (che ha chiuso nono) ed è in attesa delle controanalisi che potrebbero scagionarlo (come anticipato qualche tempo fa dalla rosea) o affossare per sempre una ancora luminosa carriera.

Non ho le conoscenze per parlare del caso specifico. Anche perché non conosco Santambrogio. Lo ricordo grande protagonista in un “Lombardia” e so di averlo visto dominare in tutte le categorie quando, da giovane cronista, mi toccava masticare un po’ di resoconti ciclistici. E, detto tra noi, neppure mi interessa (ri)parlare di doping, schierandomi giocoforza tra gli innocentisti del così-fan-tutti o i colpevolisti un tanto al chilo, sempre pronti a correre prima sotto un balcone e poi sotto un patibolo. Con lo stesso squallido entusiasmo.

Mi aveva colpito molto di più – qualche settimana fa - la sua vicenda personale, che lo ha fatto diventare una star dei giornali come neppure in occasione della più prestigiosa delle sue vittorie. Aveva minacciato il gesto estremo durante una notte di pensieri oscuri ed era stato salvato da quello che, sbrigativamente, è stato definito il popolo del web ma che, in realtà, porta il nome, cognome e il (bel) viso di Alessandra De Stefano, grande cronista Rai.

Se ci spendiamo qualche parola, nella nostra infinita ignoranza, è perché domenica scorsa ha partecipato ad una esibizione ciclistica per amatori a Veduggio con Colzano, vicino a casa nostra. In attesa che qualche gazzetta da quattro soldi gli punti l’indice addosso (ricordate il grande Marco, da pirata della meraviglie a ultimo dei reietti?), mi piace assai più riportare il pensiero di un amico, che lo ha visto scendere dalla macchina accompagnato da un amico. Era lì perché lo aveva promesso in tempi non sospetti e, quando la schiena è dritta, la parola ha un senso. Ma se avesse potuto indossare una maschera che lo rendesse invisibile, lo avrebbe fatto senza esitazione. Gli sguardi inquisitori della gente, lo hanno raccontato in mille canzoni, fanno più male di tanti cazzotti sul viso che, quando è passato il livido, neppure ti ricordi di averli incassati. Per fortuna il popolo del ciclismo non è fatto di gente normale, di quella che puoi abbindolare con qualche dichiarazione ad effetto sui cattivoni che rovinano lo sport buttandosi nelle vene chissà che cosa. Gli è bastato salire in bicicletta, ha proseguito l’amico, per cambiare prospettiva. I tifosi che lo applaudivano dietro le transenne, bambini e adulti che gli chiedevano di posare con lui per una foto ricordo, il vecchietto che gli dava una robusta pacca sulle spalle. E il suo volto tirato ed angosciato di uomo non abituato ad essere scaricato come una lavatrice con il cestello rotto, è tornato disteso e rilassato. Forse più di quello che traspare dall’immagine di bambino su facebook.

Non scambiate queste parole per apologia del doping. Le medicine servono ai malati e tanto basti. Ma l’uomo, anche ammesso che abbia sbagliato – lo diranno i successivi verdetti – resta l’uomo, pur se in ginocchio. Andate a spulciare su internet, i commenti all’indomani della notizia di Santambrogio. Troverete quello che l’avevo-sempre-pensato-che-quello-andava-troppo-forte, il sapientone di turno che fa filosofia sul cattivo esempio per i bambini, il direttore sportivo che esulta perché gente così rovina l’immagine del ciclismo, l’organizzatore che invoca a prescindere pene esemplari ma che nulla diceva quando quelle imprese gli facevano avere onori e soldi. Insomma, la solita fauna che adora inneggiare ad un campione costruitosi dal nulla ma che, con la stessa disinvolta cattiveria, ama ancora di più passeggiare sui resti di una carriera.

Spero che Mauro abbia la forza di continuare ad andare in bicicletta, di scollinare monti e colline a trenta all’ora, di macinare chilometri di pianura sotto il sole e la pioggia correndo come una motocicletta. Per rimanere, almeno agli occhi del suo cuore, quel bambino che vent’anni fa non inseguiva soldi e gloria. Ma soltanto una passione e, al massimo, lo sguardo ammirato di papà.

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