Buona domenica,
il fatto culturale della settimana è, indubbiamente, la presunta inchiesta della Corte dei conti nei confronti delle agenzie di rating che, tre anni fa, ci hanno declassati senza tenere in conto “l’alto valore del patrimonio storico, culturale e artistico del nostro Paese che universalmente riconosciuto rappresenta la base della sua forza economica”, e hai detto niente. Peccato che ho la sensazione che tutta questa attenzione nei confronti di codesto nostro bel patrimonio resti unicamente una cosa con cui riempirsi la bocca sporadicamente. Se osservate attentamente i programmi dei wannabe leader, mentre si divincolano temporeggiando prima di staccare la spina al Governo, alla cultura – quando ci sono – sono destinate poche, identiche parole, incentrate sui concetti di “valorizzazione”, “grande patrimonio”, “culla della cultura europea” e varie amenità, ma nessuna proposta concreta per trasformare i musei deserti e abbandonati a loro stessi, i siti coperti da sterpaglie e rifiuti, le biblioteche che annaspano, le scuole - che finché stanno sotto un ministero a parte, e così le università - non entreranno mai a far parte di un sistema culturale, ma ringraziamo il cielo sennò i già pesanti tagli sarebbero stati anche più pesanti... Insomma, le agenzie di rating non ne hanno tenuto conto perché NOI non ne teniamo conto e la Corte dei conti glielo ha messo in conto solo tre anni dopo, con tutta l’aria dell’escamotage poco convinto. Io resto dell’idea che siamo succubi di una massa di ignoranti che vuole abbassarci al loro livello, perché la smania di arrivare gli ha fatto abbandonare qualsiasi velleità di acculturamento più o meno ai tempi del campetto con gli amici e ora, quando si parla di cultura, non mettono mano alla pistola, ma hanno una paura dannata che qualcuno gli chieda di ripetere l’esame di terza media.
MUSICHETTE
MICHAEL BLOOMFIELD
From his head to his heart to his hands (Legacy)
Vivi, invecchia, e verrai osannato come un venerato maestro. Se muori si aprono due strade: icona indimenticabile o pozzo dell’oblio. Anche se non mancano gli estimatori di Bloomfield – abbastanza da giustificare la pubblicazione di questo box quadruplo – la sua popolarità a più di trent’anni dalla scomparsa non si può certo paragonare a quella di un Clapton, per dirne uno vivo, o di un Hendrix, per dirne uno morto che pubblica assai più di quando era vivo. Ma la classe di questo musicista nato a Chicago, terra del blues urbano (“ma non prendiamoci in giro – diceva – sono bianco, non ho mai sofferto nessuna delle pene che si cantano nei blues, mio padre è un uomo facoltoso e ho avuto un bar mitzvah grandioso”), spicca ancora oggi. Questo box, curato dall’amico Al Kooper, copre tutta la carriera di Bloomfield con tracce mai pubblicate del 1964 fino alla sua ultima esibizione del 1981 a fianco di Bob Dylan. Fu proprio quest’ultimo a innamorarsi del suo tocco, chiamandolo per l’incisione di Like a rolling stone (qui inclusa in una versione strumentale per meglio ascoltare il contributo dei musicisti, bell’idea), per tutto l’album Highway 61 revisited e, naturalmente, per la “performance del secolo” al festival di Newport, quando il popolo folk venne pettinato contropelo da una sferzata di rock e non si divertì affatto. Poi ci fu la Butterfield Blues Band, ben rappresentata, di cui vanno ascoltati capolavori come la scoppiettante Born in Chicago e l’esoterica e ipnotica East – West. Non mancano brani degli Electric Flag, della lunga e frammentaria carriera solistica, ma anche le collaborazioni con star come Muddy Waters e Janis Joplin oltre che con amici come Nick Gravenites e lo stesso Al Kooper, fino al finale tragico, ancora con Dylan. Oltre ai tre cd c’è un dvd con Sweet blues: un film su Michael Bloomfield diretto da Bob Sarles. Splendido anche il libretto. Insomma, non ci sono scuse, e se ne accampate ascoltate qui:
https://www.youtube.com/watch?v=YaV-S5ivX3E&feature=youtube_gdata_player
LUCINDA WILLIAMS
Lucinda Williams (Thirty Tigers / Ird)
Un po’ di storia prima di parlare di questo disco che – anticipo – è un capolavoro da possedere assolutamente, per troppi anni fuori catalogo. Lucinda è una delle ultime grandi autrici americane, tra rock, folk e country senza appartenere a nessuno di questi generi. È esplosa grazie a Car wheels on a gravel road, nell’ormai lontano 1998, ma prima di quel capolavoro la Williams aveva già inciso ben quattro album. I primi due, acerbi, per un’etichetta rigorosa come la Folkways, poi due gemme come questo album, datato 1988, e il successivo Sweet old world. Qui non ci sono più incertezze e se la fortuna fosse stata meno avara con Lucinda, sarebbe diventata una grande star. Ma così non è stato e, va detto, meglio per noi, perché così ha continuato a registrare con tutta calma, senza pressioni, sfornando una perla dopo l’altra. Questa è la prima della collana e questa ristampa, che aggiunge un grintoso live dell’epoca, rimedia a un vero torto. Ascoltate qua, valà:
https://www.youtube.com/watch?v=XBDsd5Qx98w&feature=youtube_gdata_player
COLONNA SONORA (ARTISTI VARI)
Inside Llewyn Davis (Warner Bros.)
Anche se questo disco è uscito in novembre, quando il film è stato proiettato negli Usa, il momento di parlarne arriva ora che A proposito di Davis di Joel e Ethan Coen è sui nostri schermi. Il film racconta, romanzandola, la vie de bohème di un musicista in erba (contemplate la bellezza di quest’ultima espressione. Grazie) tra le strade e gli appartamentini del Greenwich Village poco prima che l’arrivo di Bob Dylan cambiasse tutto (lo so, due citazioni su tre dischi e, volendo, potevo citarlo anche in quello della Williams). La colonna sonora, assemblata dallo stesso T Bone Burnett a cui i Coen si rivolsero per Fratello, dove sei, riuscendo nell’incredibile impresa di vendere 8 milioni di copie di un disco di musica rurale anni Trenta, vuole tentare un nuovo colpo gobbo, riportando in auge il sound del folk revival dei primi anni Sessanta. Tra i nomi coinvolti Oscar Isaac (ovvero il Llewyn Davis del titolo), Justin Timberlake (dimenticate la dance), Marcus Mumford, Carey Mulligan e i Punch Brothers. Il repertorio è fatto di classici come Fare thee well (Dink’s song), The last thing on my mind, Five hundred miles, perfino le rigorose The shoals of herring di Ewan MacColl e The auld triangle diBrendan Behan. Non mancano Dylan, con un’inedita versione della già rara Farewell, e Dave Van Ronk, alla cui autobiografia è ispirato liberamente il film, con una ruvida Green, green rocky road. Eccellente viatico per una scena distante dalla modernità più di quanto lo fosse, all’epoca, l’America della Grande Depressione che si cantava con un trentennio di ritardo. Ascoltate qua:
https://www.youtube.com/watch?v=SQyPVBtLXk0&feature=youtube_gdata_player
LETTURINE
FRANCESCO GUCCINI
Nuovo dizionario delle cose perdute (Mondadori, 148 pagine, 12 sacchi)
Da quando è uscito il primo Dizionario delle cose perdute, Francesco Guccini non può fare un passo, per strada, senza che qualcuno lo fermi per suggerirgli con entusiasmo e commozione qualche oggetto “del tempo andato” che merita di essere ripescato dal veloce oblio dei nostri anni e celebrato dalla sua penna. Dall’idrolitina ai calendarietti profumati dei barbieri, dal temibile gioco del Traforo alle cabine telefoniche, dal deflettore all’autoradio passando per i “luoghi comodi” e i vespasiani, le letterine di Natale piene di buoni propositi da mettere sotto il piatto del babbo, le osterie (quelle vere, senza la H davanti per darsi un tono) e molto altro, Guccini torna a scavare nel passato che ha vissuto in prima persona per riportarcelo intatto e pieno di sapore. E con questo suo catalogo delle cose perdute dà vita a un personalissimo genere letterario nel quale l’estro del cantautore - capace di condensare in poche strofe un universo intero di emozioni -, la sua passione storica e filologica e la sua vena poetica trovano sintesi piena: regalandoci pagine in cui ogni oggetto, ogni situazione, suscita intorno a sé un intero mondo, sempre illuminato dalla luce di un’insuperabile ironia.
NdA: parliamoci chiaro. Di libri come questo Guccini potrebbe scriverne uno alla settimana, bendato e con un braccio legato dietro alla schiena. Però è innegabile che l’ironia del soggetto si esprima molto meglio in casi come questo: infatti non sono un grandissimo fan del Maestrone -scrittore, che più passa il tempo più mostra, anche sulla pagina, la stessa involuzione del cantautore. Qui, invece, prevale il gusto per l’aneddoto raccontato con ironia, vari amarcord, forse anche facili – facili, ma da leggere per trascorrere qualche ora immersi nel passato prossimo...
MASSIMILIANO PAPINI
Fidia. L’uomo che scolpì gli dei (Laterza, 290 pagine illustrate, 19 sacchi)
“Venne il dio sulla terra dal cielo a mostrarti l’effigie, o tu andasti a mirarlo, Fidia, in cielo”. Questo si diceva del colosso di Zeus a Olimpia, una delle sette meraviglie del mondo, opera di Fidia, insuperabile nel rappresentare la maestà e la bellezza degli dei. Peccato che l’unica testimonianza personale rimasta dello scultore sia un piccolo vaso a Olimpia con l’iscrizione parlante: “Io sono di Fidia”. E le tante statue in oro e avorio, in bronzo e in marmo, che fine hanno fatto? Tutte scomparse. E tutte le nuove opere sull’Acropoli di Atene, “realizzate in breve tempo per durare a lungo”, furono veramente sotto la sua sovrintendenza? Anche il sodalizio con Pericle, inscindibile per gli autori antichi, quanto fu vero? E dov’è la sua mano nella decorazione del Partenone? Lì di certo Fidia realizzò una magnifica statua in avorio con 1.000 chili d’oro che costò più del tempio: l’Atena Parthénos. Ma non tutto filò liscio. Le invidie all’interno della bottega e la voglia degli oppositori di Pericle di testare il giudizio del popolo sullo statista per interposta persona portarono a sospetti e accuse. Anche altri nella cerchia di Pericle, come la bella etera Aspasia e il filosofo Anassagora, furono presi di mira, ma senza troppe conseguenze. Per Fidia, no, il processo non finì bene.
NdA: un libro divulgativo (non occorre essere laureati in lettere antiche, in architettura o in storia dell’arte per comprenderlo), ma accuratissimo (anche i professori di lettere antiche, gli architetti e gli storici dell’arte vi troveranno spunti), che aiuta a comprendere come, anche in un passato remoto, le Grandi Opere, i soldi, il potere, la politica e i personalismi si intrecciassero inscindibilmente. Certo che, allora, si creavano grandi capolavori mentre oggi si lasciano a metà palazzetti dello sport e tronconi di autostrada, ma non si può avere tutto. Da leggere con spirito aspro.
STEPHEN KING
Doctor Sleep (Sperling & Kupfer, 516 pagine, 19,90 sacchi)
Perseguitato dalle visioni provocate dallo shining, la luccicanza, il dono maledetto con il quale è nato, e dai fantasmi dei vecchi ospiti dell’Overlook Hotel dove ha trascorso un terribile inverno da bambino, Dan ha continuato a vagabondare per decenni. Una disperata vita on the road per liberarsi da un’eredità paterna fatta di alcolismo, violenza e depressione. Oggi, finalmente, è riuscito a mettere radici in una piccola città del New Hampshire, dove ha trovato un gruppo di amici in grado di aiutarlo e un lavoro nell’ospizio in cui quel che resta della sua luccicanza regala agli anziani pazienti l’indispensabile conforto finale. Aiutato da un gatto capace di prevedere il futuro, Torrance diventa Doctor Sleep, il Dottor Sonno. Poi Dan incontra l’evanescente Abra Stone, il cui incredibile dono, la luccicanza più abbagliante di tutti i tempi, riporta in vita i demoni di Dan e lo spinge a ingaggiare una poderosa battaglia per salvare l’esistenza e l’anima della ragazzina. Sulle superstrade d’America, infatti, i membri del Vero Nodo viaggiano in cerca di cibo. Hanno un aspetto inoffensivo: non più giovani, indossano abiti dimessi e sono perennemente in viaggio sui loro camper scassati. Ma come intuisce Dan Torrance, e come imparerà presto a sue spese la piccola Abra, si tratta in realtà di esseri quasi immortali che si nutrono proprio del calore dello shining.
NdA: scusate, qui baro più volte. Innanzitutto ho scritto e riscritto che non volevo ficcare romanzi in codesto spazio, e, naturalmente, questo è un romanzo. Poi qui dovrei mettere sol le cose belle che mi piacciono a me (per dirla in bell’italiano), e invece son qui per sconsigliarvi questa PUTTANATA (pardon my french) commessa dal grande maestro del brivido che, quando vuol vivere di rendita, sa bene come fare. L’idea di un sequel letterario di Shining era tanto balzana quanto quella di farne una versione televisiva perché King era insoddisfatto della trasposizione cinematografica di Kubrick. Che piaccia o no all’autore, il regista lo ha surclassato, trasformando una banalotta storia di un albergo infestato dai fantasmi, con catartico incendio finale quando le siepi di animali del giardino hanno iniziato a muoversi minacciose... Non lo riconoscete? Allora avete visto il film e non letto il libro che, tra l’altro, posseggo in una prima versione italiana che traduceva il titolo in Una splendida festa di morte. E questo è il primo problema del sequel che, naturalmente, parte da King e non da Kubrick. C’era davvero bisogno di scoprire cosa è successo al piccolo Danny, ora l’adulto Dan, dopo quei terribili fatti dell’Overlook Hotel? No, come non c’era bisogno di interrogarsi sul destino di Bowman una volta giunto a Giove e oltre l’infinito. Eppure ecco qui questo pasticciaccio brutto di generi e scopiazzature da mode del momento (ragazzina evanescente da salvare, setta di parazombie postapocalittica). Insomma, evitare, prego.
VISIONUCCE
Raimovie , lunedì 10, ore 21.15
La morte cavalca a Rio Bravo (Usa, 1961, 90 minuti) di Sam Peckinpah con Maureen O’Hara, Brian Keith, Steve Cochran e Chill Wills
Per vendicarsi al momento opportuno di un vecchio sudista che anni prima l’ha quasi scotennato, Yellowleg fa con lui una rapina durante la quale uccide per errore un bambino, figlio di una cantante di saloon. Per farsi perdonare la accompagna attraverso il territorio degli Apaches a un remoto cimitero dove seppellire il piccolo. Tra mille pericoli i due derelitti s’innamorano. Esordio nel lungometraggio di Peckinpah, allora trentacinquenne, che lo ha in seguito rinnegato.
NdA: lo ha rinnegato perché non ha avuto il final cut e ha avuto contrasti asperrimi con il produttore Charles Fitzimons, sorello della O’Hara, che lo ha sottratto al regista per rimontarselo a suo uso e consumo, anche se non ha potuto distruggere completamente quanto aveva vatto il vecchio (gui giovanissimo) Sam. Sicuramente un film imperfetto, ma che mostra già in nuce il tocco di un maestro.
Iris , lunedì 10, ore 23.30
Honkytonk man (Usa, 1982, 122 minuti) di e con Clint Eastwood e con John McIntire e Kyle Eastwood
Anni Trenta, Grande depressione. Red Stovall è un autore di canzoni country, malato di tubercolosi e alcolizzato, che si mette in viaggio con il giovane nipote alla volta del Grand Ole Opry di Nashville, tempio del country, dove lo attende un’audizione. Il viaggio è lungo e avventuroso, tra locali fumosi, canzoni, furti di polli e case di piacere, e il legame tra lo scapestrato zio e il saggio nipote si fa sempre più stretto. Quella di Red, però, è una morte annunciata, e lui l’affronta con incrollabile noncuranza.
NdA: questo va recuperato per vari motivi. Innanzitutto è uno dei due film di Eastwood come regista che non esiste in dvd (l’altro è Assassinio sull’Eiger, di cui non si ricorda più nessuno). Poi è un omaggio a un America perduta, ispirato vagamente alle figure di musicisti come Jimmie Rodgers e Hank Williams, stelle country rilette da un grande amante del jazz come Clint che quando girò codesto film aveva appena 52 anni, ma già si vedeva come un decrepito (de)relitto del passato.
Raimovie, Martedì 11, ore 13.55
Il toro (Italia, 1994, 105 minuti) di Carlo Mazzacurati con Roberto Citran, Diego Abatantuono, Marco Messeri e Alberto Lattuada
Franco, dopo essere stato licenziato dall'allevamento in cui lavorava, decide, come risarcimento per il danno subito, di rubare dalla sua ex azienda Corinto, un toro del valore di un miliardo di lire. Franco e il suo fidato amico Loris caricano l'animale su un camion e si mettono in viaggio verso l'Est Europa, allo scopo di piazzare il toro e ricavarci una significativa somma. Ma il viaggio si rivela lungo e pieno di imprevisti; passata con molta fatica la frontiera, Franco e Loris si rendono conto che vendere un toro di quel valore non sarà facile, non conoscendo i posti in cui poterlo piazzare e le persone giuste a cui rivolgersi. Tutti i problemi che trovano lungo la strada finiranno per incrinare il loro rapporto, ma una svolta positiva della situazione li riunirà come prima.
NdA: era ovvio, era ora...
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