Buona domenica,
la notizia culturalmente più rilevante della settimana è che abbiamo rischiato seriamente di avere Baricco come ministro della cultura (e non è ancora detta l’ultima). Non posso fare a meno di notare che, in queste ore di consultazioni, mancate consultazioni, azioni, reazioni, renzioni, redde ratione, la parola “cultura” viene nominata solo in coda, solo per dire “e per X ci sarebbero pronte le deleghe ad ambiente, ricerca, rapporti con il parlamento o cultura”. A questo punto mi chiedo se non avesse ragione davvero, invece che paradossalmente, il grande estinto di questa settimana, Roberto “Freak” Antoni, a cui dedico queste righe e di cui riprendo la fondamentale esortazione DIVENTA DEMENTE!
Hey non fare il sapiente / tu non sei divertente / io che sono ripetente / io ti tiro un fendente / Forse sei deludente / perché hai perso il mordente / ma se trovi che ti rende / tu diventa pur demente
La cultura / poi ti cura / con premura / con premura / La cultura / poi ti cura / con premura / la cultura
Se la gente poi t’offende / tu ti levi le mutande / io che sono deficiente / io ti spacco la tua mente / Sei rimasto ignorante / non ti frega più di niente / se ti senti impotente / tu diventa pur demente
La cultura / poi ti cura / con premura / con premura / La calura / più non dura / sta sicura / sta sicura / la calura / più non dura / La verdura / più non dura / perché è dura / la verdura / la verdura
DISCAPITI
KREG VIESSELMAN
If you lose your light (Continental Song City)
Visto & ascoltato la settimana passata All’unaetrentacinquecirca, una fugace presenza prima degli Hothouse Flowers all’incompleto (ma ne bastavano due, grandi come sono). Lo avevo dato per disperso dopo The pull, album di meravigliosa e soffusa canzone d’autore giocata su una perizia chitarristica che sostiene una voce che si potrebbe collocare tra quella del giovane John Martyn e quella di Ray Lamontagne. Questo nuovo lavoro, realizzato dopo che Kreg si è trasferito dal Minnesota a Oslo (a qualcuno piace freddo?) non tradisce le aspettative, con un pugno di suggestive ballate che vivono anche dei bei controcanti di Anne Lise Frøkedal. Sperando di rivederli su un palco nostrano presto. Un assaggio:
https://www.youtube.com/watch?v=mODNNvcX5HU&feature=youtube_gdata_player
RICHARD LINDGREN
Driftwood (The 309 sessions) (Rootsy)
Chi è costui? Lo conoscerete arrivando sempre All’unaetrentacinque domani sera (lunedì 17) per ascoltarlo assieme a Terje Nordgarden (lo so, oggi sono monolocalico, so what?). Arriva da Malmö e con quella faccia un po’ così potrebbe benissimo essere il protagonista di un film di Kaurismaki (che c’entra la Finlandia con la Svezia? Vabbé, suvvia, è pur sempre Scandinavia) oppure un volto nella penombra di un muto di Sjöström. In realtà è un cantante, autore e chitarrista dai toni cupi e dalla grande intensità. Ascoltatelo domani sera, ascoltate il frammento che vi metto, poi decidete:
https://www.youtube.com/watch?v=4M-GzRTArKA&feature=youtube_gdata_player
THE SMALL FACES
Here comes the nice – The Immediate years box (Charly)
Qui entriamo in zona leggenda anche se questo quartetto non ha mai avuto la stessa popolarità di altre band dell’epoca (immediati concorrenti Kinks e, soprattutto, Who), anche a causa di una gestione discografica disastrosa a cui questo box quadruplo cerca di porre rimedio concentrandosi sulla seconda parte della breve carriera di Steve Marriott, Ronnie Lane, Ian MacLagan e Kenney Jones, quella trascorsa sotto l’egida della Immediate, etichetta di Anrew Loog Oldham, già manager dei Rolling Stones. Perle pop e rock, un capolavoro come il concept album Ogden’s nut gone flake, inediti, rarità di quelli che, poi, recluteranno Rod Stewart e Ron Wood e si faranno chiamare, con ben altro successo, semplicemente Faces. Ma questa è un’altra storia. Ascoltate questa delizia candita:
https://www.youtube.com/watch?v=14ViwvgtvbA&feature=youtube_gdata_player
LIBRAGIONI
ANTONIO RUBINO – MARTINO NEGRI
La scuola dei giocattoli di Antonio Rubino. Un progetto di editoria didattica degli anni Venti (Scalpendi, sette volumetti per complessive 140 pagine illustrate, 30 sacchi)
Si può imparare divertendosi? Crescere giocando? È nel tentativo di rispondere a questi interrogativi che nel 1922 l’Istituto editoriale italiano pubblicò La scuola dei giocattoli, una serie di albi a colori scritti e illustrati da Antonio Rubino. Belle lettere (“Sillabario a figure per imparare a leggere senza sforzo”), Numeretta (“graziosissimo” abbaco illustrato), O di Giotto (“Nomenclatura figurata degli oggetti più familiari”), Bestie per bene (“Rappresentazione comicissima del mondo degli animali domestici e selvaggi”), Io asino primo (“Racconto educativo”) e Re Bifè (“Deliziosa fiaba”). Albi che hanno la particolarità di presentare in copertina personaggi disegnati secondo i principi dell'anamorfismo, tali perciò da risultare proporzionati solo se adeguatamente curvati. Per la prima volta vengono ripubblicati, nella loro forma originale, tutti i sei albi. Un settimo volumetto, scritto da Martino Negri, accompagna il lettore nei meandri dell’immaginario di Rubino, illustrandoci gli antecedenti storici e le derive contemporanee.
NdA: non ci sono parole per descrivere la bellezza di quest’opera. Spiace solo che, salvo eccezioni in cui non voglio smettere di sperare, ai bambini odierni risulteranno assolutamente non interessanti né divertenti. Beh, e chi dice che siano stati fatti per loro? I libri sono di chi se li merita...
MANFRED SPITZER
Demenza digitale. Come la nuova tecnologia ci rende stupidi (Corbaccio, 343 pagine illustrate, 19,90 sacchi)
Senza computer, smartphone e Internet oggi ci sentiamo perduti. Questo vuol dire che l’uso massiccio delle tecnologie di consumo sta mandando il nostro cervello all'ammasso. E intanto la lobby delle società di software promuove e pubblicizza gli esiti straordinari delle ultime ricerche in base alle quali, grazie all'uso della tecnologia, i nostri figli saranno destinati a un radioso futuro ricco di successi. Ma se questo nuovo mondo non fosse poi il migliore dei mondi possibili? Se gli interessi economici in gioco tendessero a sminuire, se non a occultare, i risultati di altre ricerche che vanno in direzione diametralmente opposta? Sulla base di tali studi, che l’autore analizza in questo libro, è lecito lanciare un allarme generale: i media digitali in realtà rischiano di indebolire corpo e mente nostri e dei nostri figli. Se ci limitiamo a chattare, twittare, postare, navigare su Google... finiamo per parcheggiare il nostro cervello, ormai incapace di riflettere e concentrarsi. L’uso sempre più intensivo del computer scoraggia lo studio e l’apprendimento e, viceversa, incoraggia i nostri ragazzi a restare per ore davanti ai giochi elettronici. Per non parlare dei social che regalano surrogati tossici di amicizie vere, indebolendo la capacità di socializzare nella realtà e favorendo l’insorgere di forme depressive. Manfred Spitzer mette politici, intellettuali, genitori, cittadini di fronte a questo scenario: è veramente quello che vogliamo per noi e per i nostri figli?
NdA: oh, naturalmente esclusi i presenti, vero?... Leggete, leggete... Leggiamo...
GILDO DE STEFANO
Una storia sociale del jazz. Dai canti della schiavitù al jazz liquido (Mimesis, 182 pagine, 16 sacchi)
La presenza del jazz nella cultura musicale mondiale è un dato difficilmente confutabile. Anche chi non conosce direttamente l'idioma jazz, inteso come genere musicale specifico nato in America, può - una volta resosene conto riconoscerne gli influssi su gran parte della musica occidentale del secolo scorso. Ma il jazz non è solo musica bensì un mero “fatto sociale”, e se prima coinvolgeva solo il popolo afroamericano adesso va inteso a livello “glocale”. Questo saggio è arricchito dalla prefazione dell'autorevole pensatore Zygmunt Bauman e, pur non avendo la pretesa di voler essere una sorta di “sociologia della musica jazz”, affronta l'argomento della musica afroamericana - con tutte le sue peculiarità quali l'improvvisazione e quant’altro - sotto un profilo squisitamente socio-antropologico, partendo dalle teorie classiche fino ad analizzare quelle prospettive relative al mondo della globalizzazione. A tal proposito il jazz, come linguaggio musicale, assume da sempre un ruolo significativo nei processi di costruzione sociale della realtà e dell'immaginario individuale e collettivo.
NdA: interessante, a tratti ostico, ma indirizzato anche a chi non è così pratico di jazz, ma vuole comprendere una fetta importante di cultura americana, partendo da un terribile paradosso. Infatti è brutto a dirsi, ma senza le navi negriere, senza la schiavitù e la segregazione di manodopera importata a forza dall’Africa, oggi la musica americana sarebbe completamente diversa, per non parlare della società...
TELEVESSAZIONI
Rai3, lunedì 17, ore 1.15 (quindi tecnicamente all’una e un quarto di quello che è già martedì, non fate confusione)
Le perle della corona (Francia, 1937, 90 minuti) di Christian-Jaque e Sacha Guitry con Arletty, Jean-Louis Barrault, Simone Renant e Raimu
Scrive Morandini: Uno scrittore francese, un ufficiale della casa reale britannica e un cameriere del Papa rievocano simultaneamente e separatamente la storia delle sette perle che papa Clemente VII donò come regalo di nozze a sua nipote Caterina de’ Medici. Quattro di loro figurano sulla corona reale britannica. Ma le altre tre? Film anomalo per la mescolanza di generi (commedia, tragicommedia, dramma, vaudeville, racconto picaresco, film-rivista, cronaca storica); la disinvolta traversata del tempo (cinque secoli) e dello spazio (sette Paesi di cui tre occupano un posto importante: Francia, Italia e Inghilterra); la mancanza di separazione tra realtà e finzione, accademismo e fantasia, poesia e prosa; l'uso di interpreti stranieri (italiani, inglesi) che parlano nella loro lingua, tradotti in francese da altri personaggi. Guitry era un nemico acerrimo del doppiaggio. È la sua prima fantasia storica scritta per il cinema e il suo primo film di alto costo, il che indusse i produttori a mettergli al fianco Christian-Jaque come consigliere tecnico. Come nel Romanzo di un baro, la struttura narrativa è divisa in due parti di avvenimenti passati, rievocati in flashback da personaggi moderni, con un episodio contemporaneo come passaggio tra le due parti. È anche il caso raro di un film che in pratica ha tenuto il cartellone per un quarto di secolo in Francia. Soltanto l’ignoranza dei responsabili televisivi spiega la sua assenza sui teleschermi.
NdA: fino a ora. Il film arriva in prima tv dopo soli 77 anni (!) e in versione originale, per la mia gioia visto che io il doppiaggio lo odio più di Guitry...
Raimovie, martedì 18, ore 11.50
Gli amori folli (Francia / Italia, 2009, 104 minuti) di Alain Resnais con Sabine Azéma, André Dussollier, Anne Consigny, Emmanuelle Devos e Mathieu Amalric
Marguerite esce da un negozio di scarpe e subisce il furto della borsa. Georges trova il suo portafoglio per terra, nel parcheggio di un centro commerciale e comincia a fantasticare su di lei, ancora prima di contattarla, senza conoscerla. Il desiderio di questa donna che fa la dentista e il pilota di aerei leggeri è così forte che riempie la sua vita di padre di famiglia e di marito di pensieri e azioni irrazionali. Marguerite resiste, ma per poco. È una corsa verso l'errore, piena di vita, inarrestabile.
NdA: a novant’anni passati Resnais resta autore da vedere e rivedere, anche quando mette in scena storie come questa, a cui bisogna abbandonarsi sospendendo il raziocinio. Curioso notare che perse, a Cannes, contro Il nastro bianco di Haneke, che è in programmazione sempre martedì 18 alle 21.15 su Rai5.
Rai5, mercoledì 19, ore 15.45
Mio figlio professore (Italia, 1946, 100 minuti) di Renato Castellani con Aldo Fabrizi, Giorgio De Lullo, Mario Pisu, Pinuccia Nava e Lisetta Nava
Un bidello cerca il riscatto sociale permettendo al figlio, a suon di sacrifici, di studiare fino a farlo diventare insegnante, proprio nella scuola in cui egli stesso lavora.
NdA: siamo lontani, forse, dal capolavoro, ma questa tragicommedia con un Fabrizi monumentale in tutti i sensi, mi è sempre piaciuta, forse perché la prima volta che la vidi andavo alle medie e, negli anni, il film invecchia con me ogni volta che lo rivedo.
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