ALTERINCOM, VOL. XXI

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Buona domenica,

ancora fresco di nomina sbeffeggiavo allegramente il neo ministro dei beni e attività culturali ecc. ecc. Dario Franceschini e ora che è stato colpito da una “sindrome coronarica acuta” mi sento quasi in colpa, non fosse che al contrario di lui, io son senza cuore (e poi non sta così male). Certo che è sintomatico: cosa ha fatto Franceschini nei suoi primi giorni al dicastero? È andato all’Aquila, si è informato di Pompei, ha messo mano un po’ qua e un po’ là alle innumerevoli questioni aperte, come ferite, della cultura italiana. Ha chiamato Sorrentino per fargli i complimenti per l’Oscar a La grande bellezza, ma in realtà lui era sopraffatto da altrettanta bruttezza. E, alla fine, non gli ha retto il core, povera creatura. M’è quasi tornato simpatico. Guarisci presto! E DATTI DA FARE!

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DISCOUNT

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MIKE OLDFIELD

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Man on the rocks (Virgin)

Lo so, lo so, non c’è bisogno che me lo diciate. So che al solo leggere Mike Oldfield il mondo si divide in tre, anzi, in quattro. C’è chi pensa che costui non faccia altro che replicare Tubular bells all’infinito, povero artistucolo privo di idee, prigioniero della sua stessa creatura che ha, ormai, compiuto quarant’anni, abbondantemente festeggiati con un profluvio di ristampe di quella e di altre opere successive. Poi c’è chi se lo ricorda autore di Moonlight shadow e di altre hit anni Ottanta di minore impatto (personalmente ho sempre preferito la più incalzante To France). Ah, costoro poi si fermano a porsi una domanda: “Mike Oldfield, già... Ma non cantava una donna?” ed è verissimo. Era Maggie Reilly, almeno nei singoli di successo, perché il chitarrista, in realtà polistrumentista (un aggettivo che è perfino riduttivo vista la mole di aggeggi musicali che è in grado di maneggiare), compositore, produttore, eccetera eccetera, non ha mai amato molto la sua stessa voce. Poi ci sono i pochi, pochissimi oggi estimatori, che ne hanno seguito la lunga carriera, tra alti e bassi, unici interessati a un disco come questo (e chi sono i quarti del mondo diviso in quattro? Sono quelli di “Mike Oldfield? Mai sentito nominare”, nel segno dell’assoluta e beata ignoranza del passato da parte degli under 20 – che stanno crescendo e diventando under 30). Bene, per questi ultimi, ma anche per quelli di Moonlight shadow e per smentire quelli che “in fondo ha fatto solo Tubular bells”, questo è il disco che non ti aspetti. Ascoltandolo come sottofondo in un negozio, confesso di averlo scambiato per l’album di qualche misconosciuto, ma bravo, nuovo cantautore inglese. Questo perché, per la prima volta, tutte le parti vocali di Man on the rocks sono affidate a un unico interprete, l’intenso Luke Spiller, misconosciuto frontman dei misconosciuti Struts. Altro punto non da poco, Oldfield suona con una band invece di indulgere alla solita cascata di sovraincisioni per dimostrare (a chi?) che sa fare tutto da sé. A questo si sommano brani brevi, melodicamente accattivanti, senza strizzate d’occhio a nessuna moda, dal tono vagamente beatlesiano (mccartneyano se si può dirlo e soprattutto scriverlo). Eccellente compagno di fine inverno verso la primavera. Constatatelo da qui:

https://www.youtube.com/watch?v=YgpS6dQVHbg&feature=youtube_gdata_player


PETER WALKER

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Has anybody seen our freedom? (Delmore)

Lo so, lo so, non c’è bisogno che me lo diciate. So che al solo leggere Peter Walker il mondo si divide in... uno: quelli di “ecchiccavoloè Peter Walker”? Bella domanda. E, aggiungo io, perché non è stimato quanto John Fahey o Robbie Basho (altri due nomi che nel mondo reale non significano assolutamente nulla, ma in quella cerchia esoterica di amanti della chitarra acustica hanno ancora un loro microseguito)? Walker è originario di Boston ed è un chitarrista noto ai collezionisti per avere pubblicato due album abbastanza oscuri negli anni Sessanta (Rainy day raga e Second poem) per poi sparire. Piaceva, a chi ha avuto il privilegio di ascoltarli, l’originale fusione di chitarra fingerstyle, flamenco e musica indiana (un altro folgorato da Ravi Shankar). Ma subito dopo Walker disparve e non se ne seppe più nulla fino a qualche anno fa, quando venne ripescato da un discografico e convinto a tornare a registrare (finora ha pubblicato Echo of my soul). Questo dischetto è qualcosa d’altro ancora. Registrati nel dicembre del 1970 e rimasti a prendere la polvere fino a poco fa, i nastri che compongono questo album inedito rappresentano, nelle parole di Walker, il suo requiem per il sogno degli anni Sessanta che si stava sgretolando. Un assaggio classico propedeutico a codesta riscoperta:

https://www.youtube.com/watch?v=EDjaOSqxLos&feature=youtube_gdata_player


LITTLE FEAT

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Rad gumbo. The complete Warner Bros. Years 1971-1990 (Rhino)

Qui no, dai, qualcuno si ricorderà dei Little Feat. In primis perché non è ancora scattato per loro il de profundis, anche se la band che è in giro oggi ha poco da spartire con quella che si propone in questo bel box di 13 dischi (a prezzo accessibilissimo, lo sottolineo subito). Poi perché negli anni successivi alla prematura morte, un piccolo, tenace culto si è sviluppato attorno al cantante e chitarrista Lowell George, fondatore del gruppo, transfuga da una brevissima permanenza nelle Mothers of Invention di Frank Zappa che gli suggerì di formare una sua band. Ascoltando i primi dischi (Little Feat e i capolavori Sailin’ shoes e Dixie chicken) si può ben comprendere perché. Estrosi quanto le Mothers, ma meno inclini allo sberleffo e più legati all’idea di canzone, mescolavano rock, folk, country, soul, funk con una tale perizia da sintetizzare qualcosa di altro e di oltre. I loro dischi non erano tutti facilissimi da trovare, un paio soprattutto, ma qui c’è tutto. Oltre ai primi tre i successivi Feats don’t fail me now, The last record album, Time loves a hero, il leggendario doppio live Waiting for Columbus (qui nella versione ricca di inediti, sempre dal vivo), Down on the farm e la raccolta di inediti Hoy-hoy! Ci sono anche i primi due frutti della reunion di fine anni Ottanta, Let it roll e Representing the mambo, dignitosissimi, soprattutto il primo. Dulcis in fundo Outtakes from Hotcakes manda in pensione un cofanetto (Hotcakes, appunto) con altri inediti. Per gli appassionati di musica americana è assolutamente da avere. Uno spunto:

https://www.youtube.com/watch?v=C5u3VJcHOPk&feature=youtube_gdata_player


LIBREZZA

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CHARLES BUKOWSKI

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Il sole bacia i belli. Interviste, incontri, insulti (Feltrinelli, 327 pagine, 18 sacchi)

“Molti dicono che Charles Bukowski non esista. Una leggenda metropolitana, che dura ormai da anni, afferma che tutte le poesie turbolente da lui firmate in realtà siano state scritte da una vecchia scorbutica dall’ascella cespugliosa”. Così scriveva nel marzo 1963 un giornalista del Literary Times di Chicago. Poeta di culto in molti ambienti underground, Bukowski era ancora ben lontano dalla fama mondiale che avrebbe raggiunto in seguito. Quel giornalista non solo scoprì che Charles Bukowski esisteva davvero. Ma verificò di persona che le sue poesie non mentivano, e così i suoi romanzi e racconti. Lo scrittore era davvero parente stretto del personaggio cinico, vitale e sporcaccione che i suoi lettori stavano imparando ad amare. E mentre i decenni passavano e cresceva il seguito di questo poeta alcolizzato, sempre più giornalisti andavano a trovarlo, ascoltavano i suoi racconti, annotavano le sue riflessioni veggenti e stralunate. Questo libro raccoglie i migliori pezzi giornalistici (e non) in cui la viva voce di Bukowski parla di sé. A partire da quella primissima intervista, realizzata cinquant’anni fa in una delle sue proverbiali, maleodoranti stanzette hollywoodiane, per arrivare all’ultima chiacchierata, concessa a bordo piscina nella sua villa di San Pedro, pochi mesi prima di morire.

NdA: non sono mai stato un fan assoluto di Bukowski. Nel periodo in cui ci si accosta alle letture che non ti dicono a scuola, mi orientavo su Burroughs e Kerouac (un altro per cui, comunque, non ho venerazione) oppure sui più classici Hemingway e Chandler (e venga un colpo a chi pensa che Chandler non possa stare in mezzo a codesti nomi). Bukowski, un po’ come Fante (padre) mi è sempre apparso né carne né pesce, troppo classico per essere beat, ma troppo beat per essere classico. Con il tempo l’ho apprezzato di più. Questa pubblicazione commemora i vent’anni dalla scomparsa...


PETER ACKROYD

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I sotterranei di Londra (Neri Pozza, 157 pagine, 15,50 sacchi)

C’è una città dove l’aria è calda anche d’inverno. Dove il buio è più nero della pece. “Una terra proibita” e sconosciuta in cui centinaia di gallerie, anfratti e cunicoli si chiudono improvvisamente in vicoli ciechi, costringendo i visitatori a tornare indietro. Qualcuno dice che, tra quei fiumi caliginosi e antichi, abitino solo ratti, cani randagi e vagabondi. Altri, più impressionabili, vecchi assassini sfuggiti alla giustizia e Cerberi che non hanno mai visto la luce del sole. Dove si trova questa città? Più o meno trenta metri sotto Londra. Con l’equilibrata commistione di ricostruzione storica e talento immaginativo, Peter Ackroyd veste nuovamente i panni dell’esploratore e, come un novello e scanzonato Jules Verne, si cala nei sotterranei della capitale inglese. Visita il congegno idraulico che trasportava i cadaveri dal cimitero di Kensal Green alle catacombe sottostanti. Spalanca la porta sul piedistallo della statua di Boadicea, sul Ponte di Westminster, e discende lungo un enorme tunnel pieno di cavi elettrici. Passeggiare nei sotterranei di Londra, per Ackroyd, significa attraversare la Storia e recuperare un passato “che esiste ancora e accompagna la nostra vita presente”. Per questo non si ferma al London Basin, il letto di sabbia e rocce risalente al Paleozoico su cui poggia la città; o alla strada del’'Età del bronzo che si snoda sotto Isle of Dogs e alle tombe anglosassoni, a pochi metri dalla navata centrale di St Paul’s Cathedral.

NdA: è bellissimo quando è un altro a compiere per te missioni impossibili come questa. Splendido, anche per chi non è mai stato a Londra...


GIANLUCA GROSSI

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Guida alla musica francese dal dopoguerra a oggi (Odoya, 383 pagine illustrate, 22 sacchi)

Con la fine della Seconda guerra mondiale, la vittoria degli anglo-americani determina una rivoluzione nei gusti musicali europei: dagli anni Cinquanta in poi l’avvento del rock’n’roll soppianta i generi originari dei vari paesi del Vecchio Continente, suggerendo al contempo mode, costumi e filosofie di pensiero. Solo un Paese riesce a contenere lo strapotere mediatico anglo-statunitense, mantenendo salde le proprie tradizioni musicali e arrivando addirittura a imporsi oltre oceano: è la Francia, con figure divenute leggendarie a livello internazionale come Edith Piaf, Yves Montand e Charles Aznavour. Non è facile spiegare il motivo di questo successo, ma senza dubbio l’orgogliosa evoluzione storica e sociale della Francia ha avuto un ruolo prioritario. Così come il successo di movimenti artistici corroborati da intellettuali di gran fama quali Jean-Paul Sartre e Albert Camus, e da muse come Juliette Greco, potrebbe aver creato i presupposti per continuare a credere nei propri sogni e nelle proprie idee. Questa guida indaga i principali rappresentanti di questa “resistenza” francese, offrendo un campionario di talenti che da sessant’anni segnano le sorti della cultura musicale d’Oltralpe.

NdA: meno prosaicamente, le solite enciclopedie musicali sono, gereralmente, o angloamericano centriche o italo centriche, curando pochissimo gli altri Paesi, con piccolissime eccezioni. Ben venga una guida per districarsi nel mare magnum d’Oltralpe...


TVLAND

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Laeffe (canale 50), lunedì 10 marzo, ore 0.30

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Violeta Parra went to heaven (Cile / Argentina / Brasile, 2011, 110 minuti) di Andrés Wood con Francisca Gavilán, Christian Quevedo, Thomas Durand, Luis Machín e Gabriela Aguilera

Violeta Parra (1917-1957) è un’icona della musica popolare cilena e, in generale, una delle artiste più significative dell'America Latina: cantautrice, ricercatrice del folklore, ma anche pittrice, ricamatrice, scultore e ceramista, nonché la prima latinoamericana a cui fu consacrata un’esposizione di opere al Louvre. Il film racconta la sua vita.

NdA: tanti la conoscono solo per Gracias a la vida... Anzi, tanti conoscono solo Gracias a la vida e non sanno di chi è. Un film che riscopre un grande personaggio e lo ricolloca al posto che merita...


Rai5, mercoledì 12 marzo, ore 17.50

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Tutti i ragazzi si chiamano Patrick (Francia, 1957, 21 minuti) di Jean-Luc Godard con Jean-Claude Brialy, Anne Collette e Nicole Berger

Due amiche vengono corteggiate a Parigi, a pochi minuti di distanza, dallo stesso ragazzo.

NdA: pochissimo visto, è il terzo corto di Godard, realizzato con la collaborazione di Eric Rohmer. Una storiellina breve e leggera, divertente e accostabile a Les mistons di Truffaut. Subito prima, alle 16.16, sempre Rai5 trasmette incredibilmente La cinese, che invece è uno di quei film a tema che oggi sembrano arrivare da Marte.


Laeffe (canale 50), giovedì 13 marzo, ore 23

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Room 237 (Usa, 2012, 102 minuti) di Rodney Ascher

A oltre trent’anni dalla sua uscita, Shining, film cult di Stanley Kubrick, mantiene inalterata la sua aura di capolavoro della storia del cinema. E, come tutti i capolavori degni di questo nome, continua a essere oggetto di citazioni, analisi, discussioni e autentici fenomeni di venerazione. Il documentario diretto da Rodney Ascher si spinge oltre, componendo un omaggio sui generis: un divertissement cinefilo, che ha il pregio di accompagnare la dichiarazione d'amore all'ironia e alla leggerezza di chi non vuole prendersi troppo sul serio e si diverte a giocare con il mito.

 

NdA: Kubrick era un genio oppure un pazzo. La verità non sta nel mezzo, sono semplicemente reali entrambe le chiavi di lettura. E i suoi fan non sono da meno. Ascher ha raccolto le varie teorie che circolano sui significati occulti di Shining, da quello convinto che si tratti di un’autoconfessione per avere contribuito a mettere in scena il finto allunaggio a quello che lo legge come una metafora dell’Olocausto c’è chi sostiene che di Olocausto si parli, ma dei nativi americani e se avete presente Shining vi rendete conto... Impagabile quello ch sostiene di vedere il profilo del regista nelle nuvole durante i titoli di testa. È un bellissimo omaggio non solo all’arte di Kubrick, ma anche alla paranoia che può catturare chi si lascia trasportare troppo dalle proprie idee sul cinema...


 

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