ALTERINCOM, VOL. XXIV

https://imagizer.imageshack.us/v2/320x53q90/18/qprf.jpgBuona domenica,

vado sulla sezione cultura dell’agenzia Ansa e ci trovo questa “notizia”: Purché finisca bene, la serie tv che ha battuto il Grande Fratello. È da interpretare a più livelli. Innanzitutto, che tristezza, fin dalla promozione autoreferenziale che inneggia al “volemose bbene” e al fatto che ci sono troppi film che poi – orrore – finiscono male, turbando gli umori delle massaie (perennemente identificate nella consueta casalinga di Voghera, mentre gli stereotipi del pastore sardo e del bracciante lucano sono in grande ribasso). Invece qui tutto si risolve per il meglio sempre. Tutto questo spacciato per cinema in tv e contrapposto trionfalmente al Grande Fratello. Ma io non posso avere il diritto di deprimermi in santa pace guardando anche film che finiscono male? Anzi, malissimo? Anche a me piace l'happy ending, a chi non piace? Ma non si può averlo sempre... It’s a sad beautiful world...

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(per i non anglofili: "Se la gente non la smette di guardare stupidi programmi televisivi, presto in televisione non ci sarà nient'altro che programmi stupidi". Non so di che anno sia codesta grande verità)


ASCOLTANTEMENTE

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WILKO JOHNSON / ROGER DALTREY

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Going back home (Universal)

Un personaggio non dovrebbe avere bisogno di presentazioni: Daltrey è la voce degli Who (e qui apro una lunga parentesi: da quando scrivo uno dei miei crucci maggiori è mettere il soggetto a questo nome. Perché i Who suona malissimo anche se è, sintatticamente, corretto, ma intendendo la W come muta e pronunziando HÙ diventa “gli HÙ”) (lo so, lo so... non c’è bisogno che me lo diciate...) voce un po’ offuscata dall’età, ma ancora capace di regalare sferzate degne, se non di Live at Leeds e Who’s next, almeno di Who are you. Johnson, invece, per chi non lo conoscesse, è un rocker di gran razza, già chitarrista della cult band Dr. Feelgood, un uomo con una missione da compiere. Qualche tempo fa gli è stato comunicato di essere terminale, una sentenza di morte annunziata che avrebbe spezzato le gambe a chiunque. Ma non a Wilko: è partito in tour e, concerto dopo concerto, vede dove riesce ad arrivare. Un’altra tappa di questo percorso da Highlander è stata la realizzazione di questo disco di grintosi brani interpretati da Roger con grande slancio. Un disco vivace, e Wilko it’s still alive!


MILES DAVIS

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Miles Davis at the Fillmore. The bootleg series vol. 3 (Columbia / Sony)

Dylan ha dato la stura alle pubblicazioni rimaste nei cassetti e ha sdoganato le “bootleg series”. Quelle di Miles uscite fin qui erano intriganti soprattutto perché proponevano con audio decente registrazioni live circolate su bootleg per anni. Arrivata al terzo box, la collana sceglie una strada leggermente differente. Qui c’è poco di inedito, eppure è tutto inedito. In che senso? Come avveniva in studio, da In a silent way in poi, ma sensibilmente sul capolavoro Bitches brew, Miles e il suo produttore Teo Macero rimescolavano le carte in tavola cucendo e assemblando brani da nastri di provenienza eterogenea. Così avvenne anche con queste registrazioni al Fillmore East (in un periodo in cui, vedi il cartellone, si esibivano anche Neil Young & Crazy Horse, Steve Miller Band, John Mayall, Moody Blues, Joe Cocker e Brian Auger!). Il risultato si ascoltava su un Live at Fillmore dove i brani erano stati così rimaneggiati da comparire con i titoli dei giorni in cui erano stati registrati (Wednesday Miles, Thursday Miles, eccetera). Le ristampe più recenti hanno suddiviso i pezzettini individuando i titoli, ma qui c’è di più: la registrazione completa di quei quattro torridi concerti e, come bonus, estratti da un live inedito di qualche mese prima (il concerto precedente sta su Black beauty). Non per completisti, ma per gli amanti delle fusioni a caldo e anche se i titoli si ripetono da un disco all’altro, nessun pezzo si sviluppa allo stesso modo.


TURCHI

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Can’t bury your past (Devil Down)

Non pensate a un combo proveniente dalla penisola anatolica, e neppure ai rappresentanti di una corrente di partito. Questi Turchi sono americani, amano la musica delle radici Usa, citano come ispiratori bluesman antichi e moderni come Mississippi Fred McDowell e R.L. Burnside, l’inarrivabile Jimi Hendrix, ma anche un cantautore di razza come Randy Newman. Tutte influenze che si possono ascoltare in Road ends in water, l’album pubblicato due anni fa e bissato dall’energico Live in Lafayette e, nel luglio scorso, dal mini My time ain’t now. Ottimi esempi di quello che il trio chiama “kudzu boogie”, ribadito da questo Can’t bury your past. Non siamo lontani dalle atmosfere dei primi ZZ Top (e, quindi, anche da quelle degli ultimi ZZ Top), ma questi giovani Turchi ci mettono una punta di modernità che non guasta, naturalmente nel rispetto di una lunga tradizione musicale assimilata con grande trasporto. Perché Turchi? Presto detto: il chitarrista è Reed Turchi e ha approfittato di un cognome che, anche negli Usa, suona peculiare, per il nome del trio che condivide con il bassista Chris Reali e il batterista Cameron Weeks.


LEGGERMENTE

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FRANCESCO BERTELLI

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Theatro delle città d’Italia. Con nova aggiunta (Congedo, 238 pagine illustrate, 49.95 sacchi)

“Questo volume è un capolavoro del suo genere che l’editore Congedo pubblica in anastatica dall’originale del 1629 di Francesco Bertelli che ne è l'autore e lo stampatore. Si tratta di un’opera di compilazione che sostanzialmente descrive 65 città italiane, sia grandi che piccole, illustrate con bellissime carte appositamente realizzate che le rappresentano a volo di uccello. Di ogni città viene data per sommi capi la storia delle origini di solito basata sulle fonti antiche sommariamente riassunte e tuttavia interessanti dal punto di vista dell’esercitazione erudita”

(dall’introduzione di Velrio Massimo Manfredi)

NdA: questo è il classico libro prezioso da tutti i punti di vista, un’operazione culturale di smisurato interesse, oltre che un piacere per gli occhi del bibliofilo. Un volume di una bellezza abbacinante.


ANDREA KERBAKER

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Breve storia del libro (a modo mio) (Ponte alle Grazie, 208 pagine, 16,80 sacchi)

C’è George Bernard Shaw che rimprovera Alfred Nobel: “Si può perdonargli l’invenzione della dinamite, ma soltanto un diavolo travestito da uomo avrebbe potuto inventarsi il premio Nobel”. Oppure Beckett, che a ritirare il riconoscimento proprio non ci va; c’è Gutenberg che inventa la stampa a caratteri mobili e poi fallisce miseramente, dimenticato da tutti; ci sono i reading di poesia degli antichi romani, per un pubblico distratto come e quanto quello dei nostri contemporanei; ci sono i censori del Seicento che tagliano e tagliano, e poi tagliano ancora; o un poeta inglese contemporaneo che trova nella spazzatura il libro con la dedica fatta a mamma e papà. Ci sono i rotoli di pergamena che a Roma si chiamano volumina. Ci sono Petrarca e John Milton, Cervantes ed Erasmo da Rotterdam; c’è Albert Camus che muore in macchina con il suo editore; c’è Voltaire che scrive libelli tra un arresto e l’altro e c’è la pagina più erotica del Padrino. Ci sono libri fondamentali che vendono qualche decina di copie, successi commerciali di scarsissimo valore, e librai attenti alla qualità con le mani nei capelli. C’è Quasimodo che litiga con Montale, che se la prende con Ungaretti, “la iena egiziana”. Ci sono gli olandesi che danno rifugio ai censurati, nel Seicento e durante il nazismo. C’è Molière che scrive lettere dedicatorie imbarazzanti; ma anche Shakespeare e Machiavelli in fondo non scherzano. Ci sono quelli che “Mamma mia, l’invenzione della stampa, chissà dove ci porterà”...

NdA: non abbisognerebbe di altri commenti. Una storia di storie, divertente, intrigante, annedottica, ma non si tratta della mera giustapposizione di fatti, nomi e titoli. Una lettura per lettori letterari e letterari...


GIOVANNI GALLI

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Boccaccio sul Lario. Otto racconti licenziosi e imprevisti (Carlo Pozzoni Fotoeditore, 168 pagine, 18,50 sacchi)

Charles Caleb Colson, scrittore inglese vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento, scrisse molti aforismi, tra i quali uno si adatta particolarmente ad alcuni di questi racconti: “L’imitazione è la miglior forma di ammirazione”. Non ho quindi difficoltà a riconoscere ciò che il lettore potrebbe sospettare al termine della lettura. Quattro racconti sono ispirati a Roald Dahl, uno a una novella del Boccaccio, un altro a un episodio del film Boccaccio ‘70. Ma c’è anche Burlesque, ispirato a vicende fin troppo note del recente passato. O La villetta, ispirato al mio interesse letterario per l’Isola Comacina. Onde evitare equivoci, sembra opportuno dichiarare che le vicende narrate e i personaggi che agiscono nei racconti sono esclusivamente frutto della mia fantasia...”

(dalla nota di Giovanni Galli)

NdA: mi era sfuggito codesto libro, nonostante sia stato pubblicato dall’amico Carlo Pozzoni alla fine dell’anno scorso. Beh, non è mai troppo tardi per recuperare, soprattutto quando si tratta di un autore arguto come Galli che, in questo caso, si scopre anche una divertente vena licenziosa.


TELEDIPENDENTEMENTE

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Raiuno, lunedì 7 aprile, ore 1.20

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Diario di un maestro (Italia, 1972, 135 minuti) di Vittorio De Seta con Bruno Cirino, Massimo Bonini, Luciano Del Croce, Tullio Altamura e Marisa Fabbri

In una scuola del Tiburtino la maggior parte degli allievi diserta le lezioni; un maestro decide di andare a cercarli e di sperimentare con loro un nuovo modo di fare scuola. Girato in 16 mm e realizzato dalla Rai che lo mandò in onda tra il febbraio e il marzo 1973 suddiviso in quattro puntate.

NdA: questa è, invece, la versione destinata alle sale, più breve, ma forse ancora più centrata in uno straordinario esempio di documentario utile, ma anche vibrante di un’utilità che trascende quella della semplice documentazione...


Rete4, Mercoledì 9 aprile, ore 15.30

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L’uomo che visse nel futuro (Usa, 1960, 103 minuti) di George Pal con Rod Taylor, Alan Young, Yvette Mimieux, Sebastian Cabot e Tom Helmore

Capodanno 1899. Scienziato britannico s'imbarca da solo nella macchina del tempo che ha inventato per un favoloso viaggio avveniristico: 1917, 1940, 1966 e, con un balzo, nell’802.701 dove esistono gli Eloi apatici e i Morlocks cannibali aggressivi e mutanti.

NdA: ingenuo e divertente, con effetti speciali che oggi fanno più che sorridere, lo avevo programmato in una rassegna sul “futuro del passato” (ovvero come ci immaginavamo il domani in giorni ormai ben più addietro dell’altroieri) (è chiaro quello che ho appena scritto, no?) (no?)


Rai5, Mercoledì 9 aprile, ore 16

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L’eclisse (Italia, 1962, 125 minuti) di Michelangelo Antonioni con Monica Vitti, Francisco Rabal, Alain Delon, Louis Seigner e Lilla Brignone

Roma, 1961. In una mattina di luglio, l’inquieta Vittoria lascia il compagno, architetto, che non ama più. Il loro addio è freddo, indolore, quanto il loro rapporto era stato apatico. Sola, avvilita, segnata dalla fatica di vivere, una sera fa visita alla sua amica Anita, con la quale però non si sente così in confidenza da poter parlare di sé ed aprirsi. Vittoria cerca anche di recuperare un rapporto serio con la madre, che vede con certezza solamente alla Borsa di Roma, luogo dove la madre si reca quotidianamente. Durante una visita incontra Piero, giovane e cinico agente di cambio. Piero, avendo saputo che Vittoria è libera, lascia subito la propria ragazza e inizia a fare la corte a Vittoria...

 

NdA: per certi versi questo film è troppo triste per essere vero, mi ricorda Il dilemma di Gaber, che è una delle sue canzoni più tristi, appunto. Perché triste? Perché vero e, quindi, non tanto doloroso, ma annichilente come la realtà. Luoghi, situazioni, modi son sempre più datati (quelli che dicono che un film “è ancora attuale” in genere non sono loro attuali), ma tutta questa morte dell’anima è universale. Per un bel pomeriggio di dolce sofferenza...


 

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