Merone, la lunga estate senza cemento
I dipendenti Holcim attendono settembre, quando dovrebbe scattare la cassa integrazione
Fine di un’era, mentre nel vecchio villaggio operaio sopravvivono spettri di un passato radioso
A Merone anche la strada è fatta di cemento. Un’unica, lunghissima gittata che dai passaggi a livello risale fino all’incrocio con la provinciale. «Ovvio - dice Roberto Spreafico, 58 anni, una trentina trascorsi all’ombra della ciminiera - Un tempo facevamo tutto noi, anche le strade. Se in Comune non avevano i soldi bastava che chiedessero qui».
La strada ricorda certe piste per il pattinaggio a rotelle, di quelle che spopolavano negli anni Settanta, oppure il fondo di un minigolf, altro must di un’epoca lontana, di anni buoni in cui l’edilizia tirava, il soldo girava facile e ancora fumavano i camini maledetti di Merone. Oggi, lungo via Montandon, la strada attorno alla quale si attorciglia il villaggio della cementeria con le sue vecchie case costruite sotto la teleferica, i dipendenti vivono l’estate più calda della loro vita. Il forno è spento, il futuro scritto.
Cassa integrazione, mobilità. Le ferie, quest’anno, non si fanno. Alessandro Tarpini, segretario provinciale Cgil: «A settembre si capirà qualcosa di meglio... Rotazioni, riorganizzazione. Situazione drammatica»
«Fine di un’epoca - sentenzia allora Spreafico - e che epoca. Avevamo tutto, non ci resta nulla. Prima che la vecchia proprietà vendesse agli svizzeri, Merone era un paradiso. Si lavorava come in una famiglia. Avevamo un tetto, lo spaccio aziendale, avevamo il centro sportivo con i campi da tennis e la piscina, avevamo un lido, al lago, soltanto per noi…».
A comandare c’era Ferdinando Gianotti, l’ingegnere, in nome e per conto dei Montandon. Viveva nella vecchia villa sul poggio a ridosso della cementeria, sotto la teleferica che faceva la spola con la cava, 24 ore su 24: «Lo svegliava il silenzio... Se si accorgeva che i carrelli smettevano di cigolare balzava giù dal letto in piena notte, sollevava il telefono e chiamava per verificare cosa non andasse... Al mattino si alzava all’alba, scendeva in giardino e da lì raggiungeva la cementeria. Faceva il giro dello stabilimento poi, verso le otto, entrava in ufficio. E ogni giorno, a metà mattina, convocava i capi reparto. Erano tempi in cui l’edilizia tirava, si vendeva tanto cemento. Ciascuno di noi provava davvero la sensazione di essere parte di un’unica, grande famiglia. Dicevano che la ciminiera inquinava. Ma non era vero niente. Tutti noi, compreso Gianotti, abbiamo cresciuto qui i nostri figli».
La villa del direttore c’è ancora, avvolta in una selva di erbacce, dietro a una cancellata liberty. Hanno rubato tutto il rame delle gronde, che si vende bene. Segno dei tempi. Cambiarono con l’arrivo degli svizzeri, a metà anni Novanta. «Si fissarono subito con l’idea di “tagliare i rami secchi”, così dicevano. E i primi di noi se ne andarono». Comparve un altro ingegnere, tutt’altra pasta, accento tedesco, che cominciò chiudendo lo spaccio. Sosteneva che non fosse più utile. Poi convocò una assemblea generale e annunciò: «Là fuori c’è un aereo pronto a decollare... Chi vuole ci salga pure, chi non vuole sappia che un altro non ne partirà».
L’epilogo, toccando ferro, mette tristezza. E spiega bene il significato della parola crisi. Basta pensare a quegli anni e, prima ancora che al numero degli operai impiegati in fabbrica, al numero di chi prosperava all’ombra della ciminiera. Idraulici, imbianchini, spedizionieri, camionisti, elettricisti, muratori, ragionieri, osti e baristi, tutti in coda come topolini dietro al pifferaio di Hamelin: «Quando all’alba si aprivano i cancelli, in fabbrica entravano centinaia di persone. Tutta gente di qui, di Merone, Erba, Monguzzo. Poi la nuova proprietà cominciò a tagliare anche loro. Pescava lavoratori da fuori provincia...». Fu l’inizio della fine, non solo per il cementificio ma anche per la comunità che fino a quel momento aveva prosperato grazie alla “Merone”.
Oggi l’aereo di quell’ingegnere sta per atterrare. Probabilmente non si alzerà mai più. Se lo farà, non sarà senz’altro da una pista di cemento.
Stefano Ferrari
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