C’è un antico giardino nel cuore della Tuscia, dove giganti e mostri sono stati pietrificati dal capriccio di un incantesimo, come nelle trame incessanti di una fiaba. A metà del Cinquecento, circa, nel suo feudo di Bomarzo, “Sol per sfogar il core” Pier Francesco Orsini, noto come Vicino Orsini, si mise all’opera per creare uno dei più stravaganti e insoliti giardini conosciuti. Dimenticato e caduto in rovina fino al dopoguerra, il giardino manierista fu acquistato dalla famiglia Bettini, al prezzo di un terreno agricolo, penalizzato dall’ingombro delle pietre che vi insistevano sopra. I Bettini restaurarono il parco e gli restituirono l’antico splendore.
Antonioni e Dalí
Un magnifico e ironico documentario di Michelangelo Antonioni, degli anni Cinquanta, lo mostra come appariva allora, con le spighe di grano alte cresciute in mezzo alle sculture inghiottite dalla folta vegetazione. Sono gli anni in cui il giardino incuriosì anche Salvador Dalí, che lo visitò e rimase profondamente colpito dal suo impianto surrealista. Lo scorso autunno, ho visitato quasi tutti i sabati da sola il Sacro Bosco, catturata dal suo fascino unico, con l’anima rapita dall’emozione di penetrare il suo enigma. A volte ero l’unica visitatrice, camminavo a labirinto nella nebbia, sotto la pioggia, sospesa come in un’apparizione esorbitante, sperando di imbattermi nel fantasma di Vicino Orsini. In alcuni momenti, provavo a immedesimarmi nella sua rêverie quando camminava nel suo “Boschetto”, come amava chiamarlo, incoraggiata dalla sensazione di camminare in un sogno, o nell’inconscio, di avere attraversato un “wormhole”, un “ponte di Eintein-Rosen”, ed essere finita in un’altra dimensione. Fra spregiudicati cambiamenti di scala e insensate ambiguità, anomale superfici inclinate, camminavo in uno spazio impossibile nel quale erano naufragate le leggi che governano la realtà, ero in un altro mondo, un altrove dove la forza di gravità vacillava e dove il tempo era finito. In quel geniale giardino ascoltavo con avidità una criptica polifonia di simboli. Mi ritornò in mente il provocatorio articolo di W.J.T.Mitchell, “Che cosa vogliono le immagini?”
C’erano personalità in quelle forme, le sentivo animate e piene di desideri. Che cosa volevano quelle creature pietrificate? Forse essere riportate in vita dall’intuizione del visitatore e raccontare la loro storia... o condurci in un viaggio iniziatico. Sfingi, false rovine, una fontana inclinata sormontata da un Pegaso, la bocca spalancata di una maschera infernale, il gruppo delle tre grazie in un ninfeo, un teatro impraticabile con il palco sconnesso, un drago alato e un orco araldico sormontato da un globo, un elefante da guerra e ancora leoni, arpie, sirene, una tartaruga e Fama, alcune erme. Un tempietto dorico, attribuito da alcuni al Vignola, con la cupola identica, a quella di Santa Maria del Fiore, ma in scala minore, dedicato alla memoria di Giulia Farnese, sposa di Vicino Orsini, morta nel 1560. Pigne e ghiande gigantesche, orsi araldici, la rosetta a cinque petali ovunque. Vasche e fontane animate da personaggi mitici, una volta alimentate dall’acqua, dovevano farne un giardino sonoro, come rimane nella memoria storica della comunità del luogo.
Non dimentichiamo che l’immaginario manierista era popolato da tartarughe, draghi ed elefanti, nelle fontane, nelle macchine festive e nei ricercati oggetti di uso quotidiano nelle corti dell’epoca. Non finisce qui l’elenco delle bizzarrie manieriste amplificate dalla follia dei colori sulle superfici, oggi scomparsi, accanto alle quali il gorgoglio di un ruscello accompagna la visita. Così, l’orca con il globo araldico aveva le fauci colorate di rosso, mentre l’arpia dal corpo rosato e le ali verdi campeggiava su un fondo bianco. La tartaruga aveva le zampe rosse o rosa e il gigante impegnato nella lotta aveva il corpo rosso. Secondo un uso astratto, simbolico e araldico del colore.
La negazione di ogni verosimiglianza naturalistica, raggiunta con contrapposizioni e forzature dimensionali, impedisce una visione prospettica unitaria e coerente del Parco. L’esperienza estetica qui è di disorientamento e inquietante ambiguità, una manifestazione magica.
Il 17 luglio 1553 Vicino fu fatto prigioniero nelle Fiandre. Sembrerebbe proprio relativa a quest’epoca la costruzione della casina pendente, edificata intorno al 1555, come simbolo di dedizione al marito, dalla consorte Giulia, la quale durante la sua prigionia aveva custodito il casato preservandolo dalla rovina.
Figlio di Gian Corrado e Clarice di Franciotto Orsini di Monterotondo (pronipote di Papa Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico), Vicino Orsini nacque a Roma il 4 luglio del 1523. Rimasto orfano di padre a 12 anni, dovette affrontare una disputa ereditaria con il fratello Maerbale, che fu sciolta nel 1542 dal cardinale Alessandro Farnese, il quale assegnò Bomarzo a Vicino e Penna e altri possedimenti a suo fratello. Sposò nel 1545 Giulia di Galeazzo Farnese e, seguendo le orme paterne, si dedicò alla carriera militare, coltivando nel frattempo anche gli interessi letterari. Nel 1541 a Viterbo, presso il Palazzo dei Papi, fu rappresentata in suo onore “La Cangiaria”, opera del medico e poeta Giacomo Sacchi, alla presenza del cardinale inglese Reginald Pole e di Vittoria Colonna. La commedia imperniata sulle metamorfosi dei personaggi, «descrive la debolezza e incertezza della passione e del sentimento d’amore».
Le fonti letterarie
Fu sempre Maurizio Calvesi in uno studio del 2000, “Gli incantesimi di Bomarzo, il Sacro Bosco tra arte e letteratura”, pubblicato da Bompiani, che pose l’accento sul rapporto fra alcuni testi letterari e il giardino delle meraviglie di Vicino Orsini. La perdita della ragione e la celebrazione dell’eccesso rimandano alla follia di Orlando dell’“Orlando Furioso”. Come scrive Vicino in una sua lettera all’amico G. Drouet del 10 aprile 1575: «Godere la follia del mio boschetto». Nei poemi cavallereschi è centrale il tema del sacro bosco, meraviglioso, magico, ma anche selva stregata, abitata da mostri e fiere, giganti e maghi contro i quali il cavaliere è chiamato a combattere per superare alcune terribili prove iniziatiche.
Secondo Calvesi un’analogia puntuale fra il Sacro Bosco e l’“Orlando Furioso” è rappresentata dal gruppo del gigante che squarta un giovane, rappresentazione del folle Orlando mentre dilania un pastore (conosciuta come il gruppo di Ercole e Caco). Il progetto del Parco, secondo lui, sarebbe stato influenzato anche dalla “Gerusalemme Liberata” di Torquato Tasso e dall’“Hypnerotomachia Poliphili” di Francesco Colonna, un libro stampato a Venezia nel 1499 da Aldo Manuzio, illustrato da xilografie e denso di significati allegorici e filosofici, considerato un capolavoro della tipografia italiana. Fu proprio quest’ultima una delle principali fonti di ispirazione di Vicino per la creazione del Boschetto. Il combattimento d’amore di Polifilo in sogno, annunciato dal titolo, si rivelerà un viaggio iniziatico fra terra e cielo alla ricerca della donna amata. È la dimensione del sogno quella in cui Polifilo intraprende il viaggio, la stessa che ci piomba addosso una volta entrati nel Parco.
Ma è Enrico Guidoni con il suo studio del 2006, “Il Sacro Bosco di Bomarzo nella Cultura Europea”, Davide Ghaleb Editore, che ci offre l’interpretazione più coraggiosa e innovativa, sostenendo che il “regista” occulto del progetto fu Michelangelo Buonarroti, il quale coinvolse nell’esecuzione delle sculture i suoi fedeli collaboratori: Leone Leoni, Raffaello da Montelupo, Francesco Moschino e Simone Mosca.
Il Sacro Bosco di Bomarzo avrebbe ricevuto l’impronta michelangiolesca e quella dei più grandi artisti manieristi toscani. D’altronde il luogo fu scelto per la straordinaria disponibilità di massi che emergevano dal suolo in loco, i quali ben si prestavano alla scultura diretta “per forza di levare”, cara a Michelangelo. L’assenza di una documentazione specifica e puntuale riguardante l’esecuzione del Parco, gli autori e i significati, l’isolamento e l’abbandono di questa straordinaria opera, dopo la morte di Vicino, si spiegherebbe ampiamente con la sua ispirazione a credenze eretiche e sincretistiche connesse al movimento degli Spirituali di Viterbo. Un circolo organizzato intorno al cardinale inglese Reginald Pole, padre spirituale del gruppo, al quale, fra gli altri, appartenevano Michelangelo, il cardinale Giovanni Morone, Vittoria Colonna e Vicino Orsini. La sua esecuzione sarebbe il riflesso della crisi religiosa e del momento storico particolare. Ci troviamo nel pieno delle tensioni spirituali degli anni del Concilio di Trento. Per Guidoni la fine della creazione del complesso non è successiva al 1556, mentre i lavori successivi, entro il 1564, riguarderanno solo la manutenzione del parco. Manutenzione rivolta a normalizzare quei significati ufficiali più scomodi, tenendo conto della stretta censoria imposta dalla curia romana, con il Pontificato di Paolo IV Carafa, eletto vescovo di Roma nel 1555, impegnato nella lotta all’eresia protestante e nemico degli “Spirituali”.
Il trattato “Del Beneficio di Giesù Christo crocifisso verso i christiani” era il testo di riferimento della Riforma italiana, scritto dal benedettino don Benedetto Fontanini da Mantova e sottoposto a revisione dal letterato Marcantonio Flaminio, proprio mentre si trovava ospite del Cardinal Pole a Viterbo nel 1542. L’inquisizione romana condannò come eretica la defunta Vittoria Colonna, Marchesa di Pescara, accusata, sotto l’influenza del cardinale Reginald Pole, di essersi convertita al credo protestante. Michelangelo, come spiega Antonio Forcellino nei suoi studi, dagli anni Quaranta del Cinquecento avrebbe infuso la riflessione teologica degli “Spirituali” nelle sue opere, negli affreschi della Cappella Paolina e nel monumento funebre di Giulio II.
Secondo Guidoni, quindi, il Boschetto sarebbe frutto di un’invenzione artistica di Michelangelo, di questi anni, con un progetto molto ben determinato e coerente, il quale fu messo in opera da allievi del maestro, avvezzi a lavorare sotto la sua guida. Come Raffaello da Montelupo, suo fedele collaboratore e suo esecutore di fiducia, buono e rispettoso secondo il Vasari. Convince la teoria di Guidoni per diverse ragioni: da un punto di vista artistico l’impronta di Michelangelo è del tutto evidente nel Parco, nel quale prevale la scultura sulla architettura. Inoltre la predilezione per il gigantismo, elemento in cui l’artista deteneva un monopolio esclusivo, pensiamo al Davide del 1504, e poi la scelta di scolpire le rocce naturali, massi inamovibili È sorprendente, inoltre, la presenza della sigla di Michelangelo, una M nella parte inferiore del collo del drago alato, di forma molto simile a quella usata dall’artista nella sua firma. Inoltre, la paternità del progetto era enfatizzata dall’espressione più volte usata da Vicino “mio bosco” (Mi-chelangelo Bo-narroti) che spiegherebbe come mai un insieme di sculture fosse definito bosco. È da osservare che la maschera infernale è pressoché identica ai volti urlanti del soffitto ligneo e del pavimento, realizzato in cotto, della biblioteca Laurenziana a Firenze, il cui disegno del Tribolo si rifà a un’invenzione michelangiolesca, e anche alle decorazioni marmoree, sempre di Michelangelo, della Sacrestia Nuova a San Lorenzo a Firenze. In quest’ottica, l’iscrizione «Sacro Bosco, che sol se stesso e null’altro somiglia» farebbe riferimento al genio di Michelangelo Buonarroti.
Le colpe della Chiesa
Per Guidoni il Sacro Bosco rappresenta una sorta di parallelo di “Gargantua e Pantagruel” di Rabelais, che allude alla corruzione e alle colpe della Chiesa romana, nel quale dominano i vizi e si professa un richiamo alla purezza di spirito e a una genuinità della pratica religiosa, in sintonia con le correnti ereticali dell’epoca, erasmiane, calviniste e luterane. Il Parco sarebbe un manifesto della visione eretico- sincretistica degli “Spirituali” materializzato nella pietra. L’incisione “Il Sogno di Michelangelo”, oggi conservata agli Uffizi, sarebbe la sintesi simbolica dalla quale Michelangelo avrebbe sviluppato l’intero impianto iconografico del Sacro Bosco.
Proprio alla corte dei Medici si sviluppò un forte gusto per l’esotico e per le curiosità. Nel 1487 Lorenzo il Magnifico ebbe in dono una giraffa dal Sultano d’Egitto. Nella Grotta degli Animali, nella villa di Castello dei Medici, tra giochi d’acqua, in un contesto artificiale e naturale, di pietre incrostate di conchiglie, stalattiti e concrezioni calcaree, erano affiancate statue di animali reali a quelli fantastici, ispirati al mondo allegorico e mitologico.
Ricordiamo inoltre la consacrazione cardinalizia del tredicenne Giovanni de’ Medici, celebrata il 10 marzo 1492, alla quale seguirono il rituale di ingresso a Firenze e i grandi festeggiamenti. Due trionfi costituirono lo spettacolo conclusivo della cerimonia. In uno dei due carri allegorici, con ruote di legno, c’erano attori che impersonavano le virtù cardinali e teologali. L’altro trionfo, di cartapesta o legno, a forma di elefante conteneva al suo interno congegni pirotecnici. Come ci fornisce testimonianza Benedetto Dei: «e dipoi venne avanti al partire la ssera dinanzi 2 trionfi alla chasa del chardinale cioè uno alefante inghirlandato di ciercchi di razzi e un altro delle sette virtù chardinale e’ quali feciono ciascheduno il chanto suo. e dappoi s’appicchò il fuocho allo trionfo dello alifante e tutto si chonsumò e arsse che mmai si vidde simile cosa né tanto a punto ogni cosa fatta». Una stupefacente anticipazione simbolica sul futuro di Giovanni de’ Medici, che nel 1513 fu eletto Papa Leone X e ricevette in dono dal re del Portogallo, Manuele d’Aviz, un elefante albino in carne e ossa che si chiamava Annone, come un generale di Annibale.
Sbarcato a Porto Ercole da un’enorme nave portoghese, il 19 marzo 1514 il pachiderma bardato sontuosamente sfilò in processione per le strade della città eterna lasciando il popolo stupefatto, perché una bestia del genere non si vedeva a Roma dai tempi dell’Impero. L’elefante aveva un moro sul dorso e uno scrigno d’argento a forma di castello ricolmo di tesori destinati al pontefice. L’elefante rimase ospite della corte pontificia fino alla sua morte e si narra che fosse capace di danzare a comando. La domenica successiva al suo arrivo, venne fatto esibire per il popolo romano con danze, giochi e trucchi guidato dal suo addestratore.
Annone fu così tanto amato dal pontefice che venne ritratto addirittura da Raffaello. Alla sua morte, avvenuta pochi anni dopo il suo arrivo, venne seppellito nel Cortile del Belvedere. Che la statua dell’elefante del Bosco Sacro non sia proprio Annone, il pachiderma appartenuto a Leone X, lontano parente di Vicino Orsini?
C’è un’ultima audace interpretazione del Parco degna di nota, quella di Salvatore Fosci. La sua idea è che Vicino Orsini fosse un uomo di pace, disgustato dalle atrocità della guerra espressa nella definizione di Bon Marzo, come vengono chiamati i sui possedimenti negli affreschi della Sala Regia di Viterbo. È importante ricordare, secondo Fosci, il cambiamento del toponimo da Polimartium a Bonmarzo, relativo alla contrapposizione fra guerra e pace. In quest’ottica, il parco fu la manifestazione di questo suo sentire e il racconto di una storia i cui protagonisti sarebbero il dio Vulcano, con il quale Vicino si identifica, Venere, dea dell’amore e sua sposa, e Marte, dio della guerra.
Guerra e pace
Attraverso il confronto con una serie di opere pittoriche dell’epoca, Salvatore Fosci nel suo libro, “Vulcano Nascosto”, pubblicato nel 2018 dalla Stamperia del Valentino, ci conduce attraverso un affascinante percorso nel quale le sculture del parco racconterebbero del tradimento di Venere e Marte ai danni di Vulcano, il quale, in preda all’ira, avrebbe punito il dio della guerra bandendolo da Bomarzo. Sorprendenti sono alcune sue peculiari interpretazioni di gruppi scultorei, alle quali l’autore arriva attraverso confronti iconografici.
Secondo Fosci, il gigante sta squartando lo stesso Marte (il quale appare stranamente effeminato dopo l’amplesso con Venere), il nemico da abbattere che rappresenta la guerra, ma in un luogo che si chiama Polimartium (città di Marte) sembra un’impresa ancora più difficile. La figura del drago, invece, mostra nell’ala alcune mezzelune scolpite che secondo il Fosci riprodurrebbero fedelmente la “bandiera vendicatrice” ottomana, in riferimento alla battaglia di Lepanto dove il figlio di Vicino, Orazio arruolato nel 1562 con l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, perse la vita. Il drago alluderebbe anche a Dragut, il terrore dei mari, ammiraglio e corsaro ottomano. Il giovane leone stritolato dalla coda del drago rappresenterebbe proprio Orazio. Fosci sostiene che Vicino Orsini, ritiratosi dalla vita militare, aveva voluto creare nel suo Boschetto, un’isola di pace e un luogo dove ripararsi dal male e dai tradimenti. La maschera infernale, che sulla bocca mostra la scritta “Ogni pensiero vola”, alluderebbe, nella sua teoria, alla fucina di Vulcano-Vicino, nella quale il tavolo, normalmente interpretato come una tavola per banchetti, è l’incudine dove il dio dà forma alle sue idee, come nell’affresco del Vasari a Palazzo Vecchio a Firenze.
«Voi che pel mondo gite errando vaghi/ di veder meraviglie alte et stupende/ venite qua, dove son facce horrende/ elefanti, leoni, orchi et draghi». Veniteci in autunno e come in una fiaba «Di rado si sa verso dove si vada, o anche solo verso che cosa si vada».
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